lunedì 4 maggio 2009
Benedetto XVI e i fondamenti della cultura: il discorso al Collège des Bernardins di Parigi (Javier Prades)
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Pubblichiamo una sintesi dell'intervento "Come parlare pubblicamente di Dio in Europa" in uscita sul nuovo numero di "Atlantide", quadrimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà diretto da Giorgio Vittadini.
di Javier Prades
Facoltà San Damaso di Madrid
Le solide mura del Collège des Bernardins hanno conosciuto vicende di ogni genere.
Per secoli il monastero ha irradiato sulla città di Parigi il suo splendore educativo e culturale, ma è stato anche utilizzato come prigione o caserma dei vigili del fuoco. Solo recentemente è stato ricomprato e restaurato su iniziativa del cardinal Lustiger e destinato a sede per la ricerca sui rapporti tra Chiesa e società. Di fronte a queste meravigliose arcate il Papa si domanda se il loro significato sia puramente archeologico, oppure se suscitino ancora interesse negli uomini di oggi: "È questa un'esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?".
Proprio come se Benedetto XVI volesse farsi eco della tradizione medievale della disputatio, in cui il Maestro di Teologia cominciava esaminando le obiezioni dell'avversario per poi fornire le sue risposte. Il primo modo di mettere in pratica il riconoscimento dell'altro è accogliere le sue domande e permettere che risuonino dentro di noi, senza artifici.
Il secondo insegnamento viene dal modo di rispondere alle domande. Non enuncia direttamente una dottrina sulla vita spirituale, ma ha la pazienza di descrivere la vita di quella comunità monastica. Se non erro, ciò che egli fa è illustrare diversi aspetti dell'esperienza umana così come fu realmente vissuta dai monaci cistercensi. Mostra infatti come questa esperienza concreta abbia un valore universale e quindi sia comprensibile da qualsiasi interlocutore. Rivendica al contempo entrambe le dimensioni di concretezza e universalità, che sono tipiche del "metodo dell'Incarnazione": il Padre ha scelto una storia particolare - quella di suo Figlio Gesù Cristo e quella di coloro che l'hanno perpetuata nel suo corpo ecclesiale, mediante il dono dello Spirito Santo - che pretende di avere un valore universale, ossia di essere vera.
A tale scopo sintetizza quattro aspetti della cultura monastica. In primo luogo, l'amore alla Parola di Dio comporta l'amore per le lettere, che dà luogo a una cultura del linguaggio.
Il desiderio di comprendere la Scrittura e la sua sacra dottrina si traduce nella proliferazione di studi sulla lingua e sull'ermeneutica dei testi letterari, delle copie manoscritte di grandi opere dell'antichità, nella costruzione di biblioteche e nella creazione di scuole (la dominici servitii schola di san Benedetto) per approfondire la Parola di Dio.
In secondo luogo, il compito di interpretare il testo sacro non è puramente individuale, per quanto il suo messaggio tocchi ognuno nel più profondo del cuore e richieda la sua risposta personale, ma "introduce nella comunione con quanti camminano nella fede". Per questo motivo esiste un'analogia tra la scuola monastica e la scuola rabbinica, dato che entrambe costituiscono il luogo ermeneutico imprescindibile per un'adeguata comprensione della sacra pagina. Nasce così una cultura delle forme di vita comunitaria.
Il dialogo con Dio, che ci fa oggetto della sua Parola viva, si esprime nella preghiera liturgica, specialmente nei salmi, che erano abitualmente accompagnati dalle istruzioni su come cantarli, e da suggerimenti sugli strumenti musicali. Si giunge quindi al terzo aspetto: una cultura della bellezza attraverso la musica sacra.
A chi si prenda la briga di ricordare le opere d'arte nate dalla creatività spirituale dei cristiani, dal gregoriano fino a Poulenc o Messiaen, attraverso Tomás Luis de Victoria, Bach o Mozart, non risulterà difficile comprendere l'importanza di questo criterio nella storia culturale dell'Europa. E neppure comprendere quanto siano dannose molte celebrazioni liturgiche attuali, che sembrano trascurare qualsiasi parvenza di bellezza nel canto, o di ordine nei gesti comuni, precipitando i fedeli nella regio dissimilitudinis di agostiniana memoria.
Infine, la vita monastica dà origine a una cultura del lavoro manuale.
Ancora una volta, il Papa vi trova un'analogia con la tradizione rabbinica, che personifica nell'atteggiamento di san Paolo, opposta alla sensibilità dei saggi greci, la cui dedizione alla theoria era incompatibile con i lavori manuali, considerati inferiori.
La tradizione agostiniana e benedettina incarnava invece un ideale che si fondava su san Giovanni, il quale dice che il Padre opera, e anche il Figlio stesso opera sempre (cfr. Giovanni, 5, 17). Il Papa ne deduce un'interessante conclusione teologica: "Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il "costruire" il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata.
Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l'Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia".
Questi quattro aspetti - amore al linguaggio e ai libri, amore alla vita comunitaria, amore alla bellezza e amore al lavoro - sono caratteristiche della cultura umana. Su di essi si deve costruire una vita sociale buona. Per questo abbiamo detto che il Papa contribuisce a una "laicità positiva" dimostrando che questi atteggiamenti - tra gli altri - alimentano una cultura e così costituiscono un fondamento sociale imprescindibile per sviluppare la civiltà. Effettivamente senza questa cultura "lo sviluppo dell'Europa, il suo èthos e la sua formazione del mondo sono impensabili". Senza questa ricchezza culturale della società il sistema politico si riduce a procedure formali che non riescono a regolare l'esercizio del potere al servizio del bene comune.
Il Discorso di Parigi contiene inoltre alcune considerazioni molto importanti per la nostra domanda su Dio.
Benedetto XVI chiarisce fin dall'inizio che la ricerca di Dio non era indeterminata o generica. I monaci "erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.
Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla". Dio non si identifica con una trascendenza negativa, in cui il "puro essere" indeterminato coincida con il "puro nulla", tanto di moda nei nichilismi occidentali o del lontano Oriente. Innanzitutto, il Dio che è pienezza d'amore nella sua vita trinitaria ha voluto per prima cosa darci delle segnalazioni di percorso - possiamo presumere che il Papa si riferisca alla creazione - e poi spianarci una via - nella rivelazione dell'uno e l'altro Testamento - affinché la ricerca dell'uomo acquisisca una modalità nuova. Non è pura speculazione, ma qualcosa di molto più semplice e drammatico: trovare e seguire una Presenza storica, quella del Figlio incarnato.
Dio non è un'idea più o meno sofisticata che l'uomo può esplorare da sé, impiegando il tempo e le risorse necessarie, fino a chiarirla del tutto. Dio è Uno, una realtà singolare e personale, che si può veramente conoscere solo quando Egli si manifesta. Se è così, gli uomini devono modificare la loro comprensione dell'universale, alla luce della singolarità dell'essere divino. In effetti, il fatto che ciò che è veramente universale sia Uno singolare (Dio), limita le pretese accampate dalla ragione moderna, e la "costringe" ad aprirsi all'attesa, al libero ascolto di una rivelazione storica. Se il Fondamento è Uno singolare, per conoscerlo veramente, per sapere Chi sia, sarà necessario ascoltarlo, se liberamente volesse rivelarsi (come aveva presentito Platone nel Fedone). Questo è l'evento che gli uomini realmente desiderano e che ora si è manifestato nella storia.
Il Papa lo riprende con grande bellezza quando, alla fine del Discorso, commenta la scena di Paolo nell'Areopago (cfr. Atti, 17, 18-34).
Di fronte a diverse tendenze del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Benedetto XVI cita due caratteristiche tipiche di Dio nella tradizione giudeo-cristiana: il suo carattere reale e non meramente pensato, e la sua effettiva comunicazione nella storia umana.
Della prima, che abbiamo già commentato, il Papa dice: "Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all'origine di tutte le cose deve esserci non l'irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo - come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) - questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell'annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell'annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Lògos, presenza della Ragione eterna nella nostra carne.
Verbum caro factum est (Giovanni, 1, 14): proprio così nel fatto ora c'è il Lògos, il Lògos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole".
Alla fine del discorso ricompare dunque, in un linguaggio più riflessivo, il metodo dell'incarnazione. Se la vita dei monaci era intessuta di fatti ragionevoli, e quindi si poteva comprendere e condividere, ora sappiamo che ciò era dovuto al fatto che la sua origine è un Avvenimento unico, l'Incarnazione del Figlio, che è Lògos in sé e pertanto "presenza della Ragione eterna nella nostra carne", nell'ambito dell'esperienza umana.
Si arriva così al vertice di questo intervento di Benedetto XVI. Ha accompagnato gli ascoltatori a partire dalle loro stesse domande attraverso il racconto di una tradizione, per giungere infine a proclamare i dogmi cristiani per antonomasia: Trinità e Incarnazione. Com'è ovvio non si può accedervi senza la luce soprannaturale della fede, ma tutti hanno potuto riconoscere i loro effetti umanizzanti.
Credere in Cristo è un atto impossibile senza la grazia di Dio, ma chi lo realizza sa che crede perché è credibile, perché è ragionevole per la propria umanità e per quella di tutti, come hanno sempre sottolineato Agostino e Tommaso. Per questo, il Papa può concludere con un prezioso suggerimento missionario: "I cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d'Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono".
(©L'Osservatore Romano - 4-5 maggio 2009)
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