lunedì 25 maggio 2009

Violette Khoury, cristiana melchita, commenta il viaggio del Papa: «Noi cristiani di Nazareth non ci sentiamo più soli» (Pesenti)


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«Noi cristiani di Nazareth non ci sentiamo più soli»

Susanna Pesenti

Violette Khoury, cristiana melchita, farmacista a Nazareth, è la fondatrice del movimento ecumenico «Sabil» (in arabo significa contemporaneamente «ruscello» e «sentiero»), che raccorda le diverse confessioni cristiane in Terrasanta.

Dottoressa Khoury, i cristiani di Terrasanta sono delusi o soddisfatti della visita del Papa?

«Possiamo dire che ha colmato tutte le nostre aspettative. Alla vigilia c'erano molti dubbi, alcuni temevano che la visita del Papa, dopo Gaza, sarebbe stata strumentalizzata, invece no. Benedetto XVI ha affrontato tutti i nodi, ha tenuto sempre presente il problema della giustizia. È stata una sorpresa: data la situazione, temevamo una visita molto formale, con le verità scomode messe da parte; invece è stato detto tutto con chiarezza».

Ma il Papa non è andato a Gaza.

«Non è stato possibile, la tensione era molto alta e solo una piccola delegazione di cittadini di Gaza ha potuto incontrarlo. Però il messaggio è passato».

Quindi aveva ragione il patriarca latino monsignor Fouad Twal, che voleva fortemente che la visita del Papa non fosse posticipata?

«Sì, ha avuto ragione, proviamo tutti un sentimento di illuminazione molto forte. Qui a Nazareth, la Messa celebrata sulla montagna mi ha riportato alla mente la Trasfigurazione. Ecco, è come se tutti avessimo guardato alla situazione, ai nostri problemi, da un punto di vista diverso e più profondo. Questo è il dono che ci ha fatto Benedetto XVI. Ora non ci sentiamo più soli».

In che senso?

«Noi cristiani di Palestina abbiamo un'identità tormentata, siamo la minoranza della minoranza e questo ha effetti profondi sulla percezione di noi stessi in un Paese dove la religione diventa la nazione. Per di più, nella Chiesa ci sentiamo coloro "dei quali si parla" piuttosto che interlocutori diretti e alla pari.
Ecco, Benedetto XVI ci ha ridato l'autostima. Ci siamo sentiti apprezzati, compresi, appoggiati. Abbiamo capito quale è il nostro ruolo e la nostra dignità.
La Chiesa ha una grande forza, che non è quella delle armi, e noi sentiamo ora di farne parte».

Questa sensazione di unità riguarda però solo i cristiani...

«Non credo. Certo i cristiani sono euforici dopo tanta tristezza, ma in questi giorni in città si respira un'aria di pace. Parlando con amici musulmani ed ebrei mi è sembrato di cogliere in tutti un senso di rispetto che il Papa si è guadagnato sul campo, in modo per molti inaspettato».

Che cosa succederà ora?

«Il discorso fatto all'aeroporto è stato molto forte. Non siamo ingenui, sappiamo che i problemi restano tutti, ma ripartiamo con la convinzione che un sentiero per la pace si può trovare. Qui a Nazareth c'è anche una questione pratica che è diventata una sorta di simbolo. La località dove si è svolta la Messa era un posto desolato e nessuno avrebbe scommesso che sarebbe diventato accogliente. Invece la città ce l'ha fatta e questo significa che quando c'è la volontà politica, cioè di fare qualcosa insieme come cittadini, si riesce. Adesso dobbiamo abbattere ogni tipo di muro tra noi, che ci isola in celle invece di farci lavorare tutti per la pace. Tuttavia, continuiamo ad avere bisogno della collaborazione di tutti, dell'opinione pubblica internazionale soprattutto».

La lettera dei cristiani di Gerusalemme è stata consegnata a Benedetto XVI da un'aderente a Sabil, una lettera molto chiara che invoca tra l'altro la fine dell'occupazione e lo statuto internazionale per la città.

«La lettera richiama la realtà di Gerusalemme come mosaico di popoli, religioni, tradizioni spirituali che l'occupazione ha sconvolto. È quello che i novemila cristiani di Gerusalemme, ma anche i musulmani e molti ebrei sentono».

© Copyright Eco di Bergamo, 25 maggio 2009

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