sabato 5 settembre 2009
Nella stanza dei vescovi: la CEI e un rinnovamento necessario (lucida analisi di Rodari)
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Nella stanza dei vescovi: la CEI e un rinnovamento necessario
PAOLO RODARI
PER IL FOGLIO
Occorrerà aspettare fine mese per capire come la Conferenza episcopale italiana uscirà dalla buriana sollevata dalla pubblicazione da parte del Giornale di un documento che condanna il direttore di Avvenire Dino Boffo al pagamento di un’ammenda per molestie telefoniche, integrato da una nota anonima extragiudiziaria contenente fatti “scandalosi”, ma inverificati, a sfondo sessuale.
E per comprendere come la Cei supererà le dimissioni presentate ieri da Boffo dalla direzione del quotidiano Avvenire, di Sat 2000 e del circuito In Blu Radio.
Ovvero, occorrerà aspettare il prossimo Consiglio permanente dei vescovi italiani in programma dal 21 settembre a Roma – un organo direttivo composto da trenta presuli – per comprendere sia quali reazioni e soluzioni i vescovi italiani vorranno adottare internamente, sia quale politica vorranno mettere in campo nei confronti dell’attuale governo del paese: scontro frontale o profilo basso? Già perché terminata l’era Ruini, sono tanti i problemi da chiarire, sul presente e sul futuro di una Conferenza episcopale, quella italiana, che negli ultimi decenni si è dovuta giostrare tra le diverse prerogative presenti nell’episcopato, le sue anime e le sue fazioni, e l’inevitabile influenza del Vaticano. Una Conferenza episcopale che, come accaduto in altre parti del mondo, ha visto crescere di parecchio la sua importanza nella vita del paese anche prendendosi spazi in passato “occupati” dalla Santa Sede.
E di questi spazi, come del ruolo dei vescovi in Italia, delle loro idee e politiche ecclesiali ora che il coperchio rappresentato per anni da Ruini è saltato, discutono senza sosta gli uomini delle gerarchie da sette giorni a questa parte.
Dino Boffo, in questo senso, è stato un grande equilibrista. Lo ha dimostrato anche recentemente. Dando spazio sulle colonne del suo giornale ad alcune delle voci nella Cei più critiche verso il governo e verso il premier, aveva di fatto attutito l’effetto potenzialmente controproducente delle stesse critiche. Aveva dato sfogo ai dissensi, insomma, senza permettere a questi di dilagare in modo incontrollato. Mentre ora, dopo l’uscita di Vittorio Feltri e le sue dimissioni, il rischio è che le diverse posizioni presenti all’interno dell’episcopato si estremizzino. Da una parte c’è l’ala anti berlusconiana che sembra voler fare di tutto per avere la supremazia.
Dall’altra c’è il Vaticano – con il segretario di stato Tarcisio Bertone in testa – che pare intenzionato ad avocare a sé (questa volta definitivamente) ogni rapporto tra chiesa e governo, cercando di salvare il salvabile e cioè ponendo in essere quel “low profile” da tempo ritenuto l’unica strada da percorrere.
Bertone lo disse forte e chiaro il 25 marzo del 2007 scrivendo al presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, da poco insediatosi al posto del cardinale Camillo Ruini: “Il compito che i Pontefici hanno affidato a questa segreteria è quello d’intessere e di promuovere le relazioni con gli stati e di attendere agli affari che, sempre per fini pastorali, debbono essere trattati con i governi civili”.
Questo appare poco da quando le conferenze episcopali hanno subìto una fenomenale elefantiasi un po’ ovunque.
Ma il tentativo vaticano, complici anche le vicende di questi giorni, potrebbe essere destinato ad andare finalmente in porto.
Il cardinale Bagnasco non ha davanti giorni facili. A conti fatti, da qui al Consiglio permanente d’inizio ottobre, spetterà a lui gestire il gestibile. Ovvero comprendere fino a dove il montare delle proteste anti berlusconiane di buona parte dei vescovi italiani a seguito delle vicende di questi giorni potrà essere ascoltato e, insieme, quando e in che modo la Santa Sede, ovvero Bertone in accordo con il Papa, vorrà intervenire per prendere definitivamente in mano le redini d’ogni cosa.
Se è vero, infatti, che molte conferenze episcopali nel mondo si sono dimostrate, soprattutto nella vicenda della revoca della scomunica al vescovo lefebvriano e negazionista sulla Shoah Richard Williamson, non del tutto in linea con il sentire del Papa, è anche vero che la medesima cosa non potrà in nessun modo accadere in Italia.
Almeno nel paese che ospita la sede di Pietro, è una dichiarata vicinanza col sentire di Benedetto XVI, vescovo di Roma, che il Vaticano e Bertone vogliono dalla Cei. E sulla cosa difficilmente saranno ammessi tentennamenti.
Poi c’è un secondo aspetto da non sottovalutare: Papa Ratzinger desidera particolarmente che quel modello di laicità positiva più volte enucleato in svariati discorsi – equidistanza ma insieme mutua e sana collaborazione – non sia disatteso in Italia.
E, dunque, è solo alle fazioni che intendono superare le divergenze con il governo del paese che egli chiederà che le guide della Cei diano ascolto. Indicativa, in questo senso, l’intervista che quattro giorni fa il direttore dell’Osservatore Romano, Gian Maria Vian, ha rilasciato al Corriere della Sera. Parlando da direttore del giornale vaticano – e, dunque, in piena sintonia con Bertone – Vian ha rivendicato il silenzio del suo giornale sulle vicende private del premier e ha ricordato come l’Osservatore abbia intervistato l’anno scorso e per la prima volta “sia il presidente della Repubblica sia il presidente del Consiglio”. Spazio alla politica e a chi governa il paese, dunque, per ascoltare e confrontarsi. Nessuna riga invece alle critiche.
La Santa Sede – la cosa è evidente – non vuole che i buonissimi rapporti da sempre intessuti con lo stato italiano (le sue istituzioni e chi governa) vengano intaccati e messi in discussione dalla vicenda che ha colpito Boffo. Per questo motivo ogni cosa oggi è nelle mani del cardinale Angelo Bagnasco. Spetta a lui, in quanto presidente della Cei, comprendere questa inclinazione vaticana e tradurla nelle relazioni coi vescovi del paese.
Del resto, anni fa, le cose andavano in questa maniera. La chiesa italiana che durante il fascismo fu impastoiata in una difficile collaborazione concordataria con le istituzioni, promosse dopo il Ventennio una linea collaborativa con lo stato italiano e il partito-stato, la Dc, che segnò l’intera rinascita del paese. Maestri, medici, giuristi e in generale tutta una serie di professionisti cattolici furono parte integrante di questa rinascita. Erano tutti espressione di quella gloriosa associazione, l’Azione cattolica (Ac), che ai tempi significava tante cose ma era essenzialmente questa: “Una cum Pontifice”. Un’unità d’intenti espressa benissimo da una battuta che girava a Roma negli anni del Dopoguerra: “Quelli dell’Ac sono le vere guardie svizzere del Papa”.
I vescovi “erano fatti” direttamente dalla Santa Sede. In quel periodo, il nunzio apostolico in Italia era (in pratica) semplicemente il decano del corpo diplomatico e non aveva, dunque, pieno potere d’indirizzo nelle nomine. I vescovi erano nominati dal Papa in accordo con la congregazione concistoriale (l’attuale congregazione per i vescovi) e i risultati erano sotto gli occhi di tutti. Vennero fuori, dopo la Seconda guerra mondiale, dopo il Vaticano II e il pontificato di Pio XII, figure del calibro dell’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, dell’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro, dell’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster (oggi beato), dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa (processo di beatificazione in corso), dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini (grande biblista), dell’arcivescovo di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli (poi Papa Giovanni XXIII) e infine di non pochi grandi Vescovi di sedi minori. Non erano mezze calzette, è evidente.
Avevano sensibilità anche diverse, caratteri diversi, ma un profondissimo radicamento nella comunione ecclesiale e un grande senso del papato. Fu dall’officina creatasi attorno a queste grandi figure che si formarono in tutto il paese altri uomini dalle coscienze cristiane plasmate nelle parrocchie e nell’associazionismo.
La compattezza della chiesa era reale.
E si traduceva anche nelle vicende politiche del paese. Nessuno metteva in discussione la laicità dello stato. Perché tutti sapevano che la laicità dello stato era nata col cristianesimo stesso.
Non c’era una divisione sui valori morali.
Una persona poteva essere più o meno integerrima moralmente, ma il consenso sui valori era un bene perseguito da tutti, credenti e non credenti.
E le gerarchie, i cardinali e il Papa e i vescovi del paese, erano dei fari nella difesa e nella diffusione di questi valori, dei fari a cui tutti – chi più chi meno, chi favorevolmente e chi meno – comunque guardavano.
Poi venne un’altra era. Presidente della Cei era Giuseppe Siri. Sotto di lui, sotto il porporato forse più avverso a che
lo stato delle cose conoscesse lo sgretolamento, mutò ogni cosa. Che la si chiami col termine più laico – “politica morotea” – o con quello meno laico – “scelta religiosa” – il risultato fu uno: la disunione dei cattolici.
Nell’Ac le cose cambiarono presto. Aldo Moro capì che per varare il centrosinistra, e poi perché il “compromesso storico” fosse tale a tutti gli effetti, occorreva avere in mano i vescovi del paese. Lo sapeva Papa Giovanni. Moro incassò la sua disapprovazione – ben certificata – ma andò avanti. Tramite l’Ac, il Meic (allora Laureati Cattolici), la Fuci, Moro lavorò con penetrante intelligenza e lungimirante programmazione per un laicato che fosse capace di emanciparsi dalla gerarchia.
Ne seppe qualcosa Albino Luciani: a Venezia, a motivo di questa volontà di emancipazione, lo scontro con la Fuci fu durissimo.
Paolo VI fu più condiscendente, almeno all’inizio del suo pontificato. Poi dovette ricredersi, tanto che arrivò, tra lo stupore di tutti, a parlare di “chi suona fuori dall’orchestra” e sapeva bene di chi parlava.
La partitura stonata alla fin fine era frutto della cosiddetta “scelta religiosa” che, paradossalmente , portò coloro che la fecero propria a un’effettiva “scelta politica”: mai si è fatta così tanta politica da quando si parla, si teorizza e si mette in pratica la cosiddetta “scelta religiosa”.
Pian piano, oltre ai laici, anche diversi vescovi hanno abbracciato questo nuovo “modus vivendi” o sono, di fatto, cresciuti in tale clima.
E anzi, erano taluni stessi politici che esercitavano una certa pressione, magari indiretta, sulle gerarchie affinché fossero promossi alcuni sacerdoti, magari loro assistenti ecclesiastici portando, in questo modo, parte dell’episcopato a privilegiare l’area progressista.
Nel frattempo presidente della Cei divenne il carmelitano Anastasio Alberto Ballestrero. Venne nominato da Giovanni Paolo II, nel 1979. Lui, ottimo padre generale, poi buon arcivescovo di Bari, fu a Torino un discreto arcivescovo. Prese in mano la difficilissima eredità del cardinale Michele Pellegrino e non riuscì del tutto, nonostante i buoni propositi, a sistemare le cose. Alla prima riunione coi preti della diocesi li trovò quasi tutti vestiti in borghese. Disse loro che non sapeva se aveva sbagliato e aveva davanti dei laici. Fu sotto la sua presidenza che quella “scelta religiosa” precedentemente teorizzata da Vittorio Bachelet e condivisa da Moro ebbe la sua massima espressione.
Poi Wojtyla decise di svoltare. Lui che veniva da una chiesa, quella polacca, tutta azione ed evangelizzazione, non poteva sopportare una chiesa italiana appiattita sul ritiro nelle sagrestie, sui “culturismi” intellettuali e su un “dialogo” non nello stile del Concilio, ovvero come maturo metodo missionario, ma come confronto senza sale incentivante, alla fine, il relativismo e il problematicismo prevalsero. E a Loreto, al convegno ecclesiale del 1985, lanciò l’idea del cambiamento. Camillo Ruini, allora ausiliare di Reggio Emilia, amico personale di Romano Prodi e del mondo della fucina bolognese, ebbe il merito di comprendere più di altri le parole del Papa polacco. E con un coraggio che ancora oggi gli viene riconosciuto dai più, predicò l’inizio d’una nuova era, di fatto smarcandosi dal mondo dal quale egli stesso proveniva: occorreva promuovere l’annuncio cristiano senza paura nella società, senza appiattimenti partitici, senza scelte che, di fatto, castravano la freschezza e la forza d’un annuncio evangelico integrale. Si deve a Ruini, alle sue qualità pastorali e politiche, una chiesa profondamente presente nel dibattito pubblico, nella vita della società in tutte le sue ramificazioni. Di fatto, nonostante la guerra delle etichette, in un attimo i cosiddetti “conservatori” sono diventati “progressisti” e i “progressisti” “conservatori”. Si deve a Ruini la capacità di aver saputo coprire, col suo carisma, le divisioni interne presenti nella chiesa nei decenni appena trascorsi, dal Concilio fino ad oggi. Ruini però ha coperto le divisioni essendo di manica larga nelle nomine dei vescovi. Ovvero spessissimo favorendo presuli che della “scelta religiosa” continuavano a fregiarsi. Dino Boffo, anche lui, è uomo nominato da Ruini e legatissimo ora al cardinal Bagnasco. E come Ruini ha fatto molto per tenere la barra della chiesa dritta e unita. Almeno fino a oggi. Ma sono un po’ tutte le nomine italiane che sono dovute passare sotto il setaccio della lunga presidenza ruiniana. Un setaccio in parte “usato” anche dal cardinale Giovanni Battista Re, prima già come potente Sostituto della segreteria di stato e poi come prefetto della congregazione per i vescovi.
A conti fatti, se è vero che occorre aspettare il Consiglio permanente del prossimo ottobre per capire come e fino a dove la Cei reagirà allo scossone di questi giorni, qualcosa sugli scenari futuri della conferenza episcopale italiana la si può dire da subito. Perché lo scossone, comunque vadano a finire le cose, c’è stato. L’anima anti premier della Cei è pronta a prendere il sopravvento e la cosa non può piacere oltre il Tevere.
La prima cosa che Bertone farà per controllare più da vicino i rapporti della chiesa italiana col governo del paese e, di conseguenza, per tenere a bada le varie anime dissonanti all’interno della Cei che la vicenda Boffo ha inevitabilmente amplificato, sarà quella di non dare alcuno spago alle voci che pensano che la leadership di Bagnasco debba essere messa in discussione. Bagnasco, infatti, non soltanto finirà il mandato quinquennale ma è quasi certa, al momento, una riconferma per un secondo quinquennio. Certo: Bagnasco e la Cei non escono rafforzati da questi giorni, ma l’arcivescovo di Genova è un uomo portato in Cei da Bertone allorquando la candidatura del cardinal Angelo Scola, patriarca di Venezia, venne ritenuta troppo “di peso” e dunque un dietrofront è impensabile.
E poi c’è un altro fatto. Il Vaticano è convinto che, oltre a dover “sfruttare” il momento per far sentire a Bagnasco e alla Cei che d’ora in avanti ogni cosa deve essere valutata e ponderata non senza aver sentito prima il parere dei suoi uomini, occorre far tornare la chiesa italiana ai fasti d’un tempo, portando nelle diocesi più importanti uomini di indubbio spessore. E per questo motivo le nomine future saranno decisive. Molte in passato sono state gestite da Ruini. Oggi spetta a Bagnasco ascoltare con più convinzione, sì, le preferenze giunte sul tavolo del nunzio in Italia dalle diverse diocesi, ma anche le aspettative vaticane (Papa in testa).
Le principali attenzioni sono concentrate su due territori ecclesiali i cui vescovi, da soli, possono risollevare le sorti dell’intera chiesa italiana. Si tratta di Milano e Torino. E’ qui che il settantacinquenne cardinale Dionigi Tettamanzi e il settantaseienne cardinale Severino Poletto hanno chiesto e ottenuto una proroga alla pensione di un paio di anni.
La cosa, seppure inusuale, è giudicata propizia affinché il Papa e i suoi più stretti collaboratori pensino con la dovuta calma a due successori in grado di ridare lustro a due diocesi purtroppo vessate da non pochi problemi: i seminari, in particolare, faticano a raccogliere vocazioni numericamente importanti e la cosa per due tra le diocesi più prestigiose del mondo è un dramma a cui riparare.
Beninteso: figure di spicco in Italia ve ne sono parecchie. Angelo Scola non è un porporato qualunque. Non lo sono nemmeno (tanto per citarne alcuni) l’arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, quello di Napoli Crescenzio Sepe, quello di Perugia Gualtiero Bassetti o quello di Firenze Giuseppe Betori, per anni numero due di Ruini in Cei. Ma anche in diocesi più piccole la situazione fa ben sperare.
In generale, è una la caratteristica pastorale che Benedetto XVI spera i suoi vescovi non tradiscano mai: l’attenzione alla formazione dei sacerdoti e del clero.
E, infatti, di quanto la chiesa italiana abbia bisogno di vescovi vicini e attenti ai problemi dei loro preti lo testimonia bene proprio Papa Ratzinger: non c’è viaggio apostolico in cui non dedichi un momento di incontro libero e spontaneo col clero locale. I preti possono porre domande al Papa circa le loro difficoltà e il Papa risponde.
Non solo: la proclamazione di un anno sacerdotale è un segnale importante che Benedetto XVI ha voluto dare alla chiesa: senza sacerdoti santi il futuro della chiesa è nero.
Sugli uomini, dunque, il Vaticano vuole puntare per rifare grande la chiesa italiana. Solo con gli uomini di spessore, come erano un tempo Siri, Schuster, Dalla Costa, Ruffini, la chiesa italiana potrà recuperare forza e unità. Anche perché la Cei è oggi anche una struttura enorme fatta di uffici coi compiti più svariati. Ma la chiesa la fanno i vescovi e il popolo loro affidato. Il vero rinnovamento della chiesa, infatti, avviene grazie al popolo, non alle strutture.
E le difficoltà di questi giorni un tale rinnovamento potrebbero favorirlo: mai come ora Benedetto XVI può pensare a un ricambio nelle diverse diocesi premiando gli uomini migliori e, insieme, gestendo con la massima ponderazione e attenzione quei vescovi che, sfruttando la bagarre in corso, intendono ribellarsi alla cosiddetta chiesa-istituzione per saldare qualche conto ancora aperto col passato e per avviare una svolta, un nuovo concilio adiuvante, che consegni alla storia spirito, magistero e idee degli ultimi due papi.
© Copyright Il Foglio, 4 settembre 2009 consultabile online anche qui.
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10 commenti:
Un cambiamento auspicabile? Si la fedeltà e la collaborazione senza riserve con Benedetto XVI. Non credo ci possano essere altre strade da seguire..... anzi, forse una ne rimane....... Tanta preghiera, tanta umiltà, zero politica e zero fame di potere e di notorietà.
Speriamo che i vescovi si rinnovino interiormente,la smettano col loro narcisismo e aderiscano col cuore alle parole,agli insegnamenti e agli esempi del Vicario di Cristo...
Bisogna stroncare i signorotti sul nascere o ci ritroveremo con dei piccoli mons.Darbois.
Si,mi ricordano i vescovi della Chiesa gallicana nell'800:
il popolo stava col Papa e loro remavano contro.
Obbedienza,umiltà e spirito di servizio ai fedeli!
Riconosco che è difficile essere umili quando si gestiscono i soldi dell'8 per mille...e la loro cassa è ancora nelle mani del molestatore!
la chiesa non può permettersi un altro disastroso concilio.
e deve individuare e risanare le orecchie di quelli che 'suonano fuori dall'orchestra'
Cara Raffaella, riconoscendoti doti di imparzialità ed equilibrata nei giudizi, mi domando: Come mai i Vescovi per lunghi anni hanno affidato il "sistema" comunicazioni in mano ad uomo solo. Era veramente capace questo Boffo di gestire la macchina comunicativa della Chiesa. Leggo infatti che ogni anno della sua gestione, la CEI doveva ripianare deficit spaventosi. Leggo infatti da informazioni giornalistiche che Sat 2000 pesa ogni anno per 20 milioni di euro l'anno e lo stesso Avvenire per 10 milioni l'anno. Fatti i conti sono 30 milioni di euro l'anno. Ma davvero siamo matti. E poi andiamo a racimolare l'8 per mille nelle parrocchie, con enormi sacrifici dei fedeli. Non mi pare molto capace uno che fa spendere milioni di euro e poi basta guardare SAT2000, tivù perfettamente inutile che non produce nulla. Boffo è rimasto sulla cresta dell'onda e tutti ora lo rimpiangono. Se uno alla RAI avesse richiesto così ingesti spese, lo avrebbero cacciato con una pedata nel sedere. E tutti lo rimpiangiamo? Bravo Boffo, certo a spese dei fedeli sono bravi tutti. Una cosa davvero spaventosa e vergognosa. E i Vescovi chiamati a controllare che facevano durante la sua gestione? Non oso immaginare.Speriamo davvero che si volti pagina.
Non conosco i bilanci della Cei e dei mezzi di comunicazione dei vescovi.
Anche Radio Vaticana e' in passivo ma e' uno strumento indispensabile per la diffusione del Magistero del Papa (anche se alcune sezioni andrebbero messe in riga).
Avvenire e' quindi una risorsa preziosissima per i Cattolici italiani.
Tengo inoltre a precisare che l'otto per mille non viene racimolato nelle parrocchie ma devoluto dai contribuenti tramite dichiarazione dei redditi.
Non c'e' alcun sacrificio da parte dei fedeli perche' in ogni caso la quota va versata (alla Chiesa, alle altre confessioni riconosciute o allo Stato).
R.
Il problema, amici cari, è un altro. Invece di spendere soldi per cercare di battere il nihilista ridens sul suo terreno (Radio, TV, giornali) occorreva batterlo nelle coscienze. Come? Attaccandolo frontalmente come si è attaccato il comunismo nel 1949. Dicendo che le TV commerciali erano portatrici dei peggiori disvalori e di una mentalità contraria a quella cristiana. Invece si è pensato di scimmiottare il Satana di Arcore e di blandirlo. Errori gravissimi, di cui intere schiere di giovani porteranno i segni per tutta la vita. Non mi va di parlare di oscenità in un blog come questo, ma se andate in giro per la rete troverete centinaia di migliaia di tredicenni che sono disposte a prostituirsi per andare ad "Amici" o al "Grande Fratello". Questo è il risultato FALLIMENTARE della stagione ruiniana.
Il degrado della televisione non e' certo colpa del cardinale Ruini!
Semmai e' colpa di noi telespettatori che continuiamo a seguire certi programmi.
Detto questo, sono anche io convinta che si debba parlare alle coscienze.
R.
... il degrado delle televisioni è colpa anzitutto del padrone delle medesime ...
Per quel che è dato comprendere a un cristiano di lontana periferia,l'analisi di Rodari pare coincidere bene. Guardereerei però un po' meglio, e con più acutezza, al periodo e alla lucida e sapiente personalità del Card. Ballestrero. Manca la citazione - per il suo verso - del Card. Pellegrino e del ruolo saggio e lungimirante del Card. Colombo, così di Luciani. Anche i grandi uomini possono sbagliare: ad es. la scelta dell'Emerito (tutta e solo papale...), Eminenza che, nonostante la sue qualità, ha fatto soffrire il papa GP II ( e il successore), così come la scelta del Card. Pellegrino che ha deluso Pl VI. Non dimentichiamo l'influsso variamente positivo della Chiesa dell'Europa del Nord: Sunens fu molto influente, ma poi anche lui addolorò Paolo VI. Luciani putroppo defunse. GP II era per lo meno troppo giovane: e fu un pontificato significativo ma lungo, e lasciò troppo spazio ad altri. Ciò, Raffaella permettendo.
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