giovedì 21 maggio 2009

Quanto stoicismo negli scritti di San Paolo (Osservatore Romano)


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Ma quanto stoicismo nei suoi scritti

Pubblichiamo ampi stralci della prolusione pronunciata in occasione della giornata di studio delle Pontificie Accademie per l'Anno paolino organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura.

di Romano Penna

Il tema dell'appartenenza multiculturale di Paolo è diventato pressoché un luogo comune nel tracciare il suo profilo tanto biografico quanto ideale. Ma, pur volendo definire Paolo "uomo di tre culture", evidenziando anche l'importanza del suo nome latino e ricuperando dagli Atti la qualifica di cittadino romano, la storia della ricerca si muove tradizionalmente sulla pista di un'alternativa tra i due poli della componente ellenistica e di quella giudaica, tra le quali tuttalpiù si colloca il mediano ambiente giudeo-ellenistico. Il primo versante, fortemente sottolineato all'inizio del secolo XX da Richard August Reitzenstein, continuò a raccogliere le preferenze degli studiosi per lungo tempo fino a qualche recente, rinnovato tentativo: sarebbe stato l'enorme divario risultante tra Paolo e Gesù a spingere poi gli studiosi a concentrare apologeticamente la loro attenzione, nonostante tutto, sulla "giudaicità" dell'Apostolo.
Ma che questa motivazione sia fasulla appare già dal celebre studio di Albert Schweitzer, del 1930, sulla mistica dell'apostolo Paolo. Qui l'autore inseriva un capitolo, emblematicamente intitolato in forma interrogativa Hellenistisch oder jüdisch?, dedicato appunto a rifiutare la prima prospettiva e a privilegiare la seconda. A questo proposito è rimasto celebre ciò che egli ebbe a scrivere ironicamente circa la inutilità di ricorrere all'ellenismo per spiegare il pensiero dell'Apostolo, il quale sarebbe comprensibile soltanto in base all'escatologia giudaica: "Coloro che si affaticano a spiegarlo in base all'ellenismo sono simili a chi vuole trasportare da lontano l'acqua in annaffiatoi bucati per irrigare un giardino posto accanto a un ruscello".
Fuor di metafora egli riteneva che, benché sia indiscutibile la possibilità che Paolo insieme alla lingua greca abbia assunto idee elleniche, tuttavia "la maggior parte di ciò che finora è stato addotto dalla letteratura greca per spiegare il mondo concettuale di Paolo, non ha gettato su di esso la luce che ci si aspettava".
Questa dichiarazione è tanto più singolare in quanto Schweitzer proveniva da una stagione, quella della religionsgeschichtliche Schule (di fine diciannovesimo-inizio ventesimo secolo), che appunto aveva ripetutamente tentato di spiegare il meglio delle origini cristiane e in specie del paolinismo col ricorrere soprattutto alla grecità e al suo enorme patrimonio culturale e religioso, approdando però a derive sincretistiche.
Sta di fatto che, a partire grosso modo dalla metà del secolo XX, l'attenzione si è concentrata maggiormente sulla giudaicità di Paolo. A questo proposito, pur prescindendo dagli studi di settore, concernenti di volta in volta aspetti particolari come i temi della Legge e del peccato o anche l'importanza e il metodo nell'uso dell'Antico Testamento, la bibliografia anche solo a livello di valutazione generale del tema si è fatta sempre più fitta. In particolare, se è evidente un rapporto dell'Apostolo con il fariseismo, si vanno scoprendo i suoi innegabili debiti anche nei confronti dell'essenismo. In particolare, la scoperta dei manoscritti di Qumràn ha vivacizzato assai lo studio delle origini cristiane nei suoi rapporti con la sua matrice giudaica. Se è vero che Qumràn entra in conto più per eventuali comparazioni con Gesù di Nazaret che non con Paolo di Tarso, bisogna riconoscere che il loro apporto anche in questo campo conosce alcuni contributi molto interessanti, che non è lecito ignorare.
Certo è che da Schweitzer in poi la ricerca ha fatto grandi progressi, a livello sia di una maggiore conoscenza delle fonti sia dell'applicazione a esse di una metodologia adeguata, e di conseguenza di una maggior cautela nel trarre conclusioni in materia. Un riconosciuto studioso delle origini cristiane, come il danese Engberg-Pedersen dell'Università di Copenaghen, giunge a scrivere che "Paolo non era né specificamente giudeo né specificamente greco", volendo dire con ciò che l'Apostolo, pur dovendosi collocare senza dubbio all'interno del giudaismo, era però un giudeo ellenista (di Tarso) e viveva in un ambiente in cui il Giudaismo aveva subìto in diversi modi un processo di ellenizzazione. Una ammissione del genere è però soltanto il minimo che si possa affermare. Infatti, ormai varie pubblicazioni si sono interessate a una specifica comparazione tra Paolo e il mondo greco-romano, producendo interessanti documentazioni a livello sia generale sia particolare. Una pubblicazione recentissima enumera addirittura 236 testi paolini che implicherebbero altrettanti parallelismi con fonti greco-pagane diverse, anche se a volte le coincidenze risultano un po' stiracchiate.
Ciò che ci spinge a indagare piuttosto sul versante greco-romano è il dato più caratteristico dell'ebreo Paolo di Tarso, riconosciuto come tipico, anzi propriamente atipico, già nell'ambito delle origini: quello di essere "Apostolo dei Gentili", secondo la sua stessa autodefinizione (Romani, 11, 13). Del resto, nella storia della ricerca, è solo su questo versante che a partire da Adolf von Harnack venne condotta una polemica, tuttora non sopita, sulla cosiddetta Hellenisierung des Christentums, cara anche ai nostri fratelli ebrei.
L'apertura di Paolo su questo versante è cosa propria già del giudaismo ellenistico. Secondo la sua stessa collocazione nella diaspora (occidentale), oltre a impiegare abitualmente la lingua greca, esso subì coscientemente nei suoi maggiori esponenti l'influenza della cultura ellenistica, dimostrandosi ecumenicamente aperto, al punto che Filone Alessandrino parlerà addirittura del "santissimo Platone" (Quod omnis probus liber sit 13) e si impegnerà in aperto dialogo con le filosofie greche del tempo, specie platonica e stoica. Paolo, da parte sua, certo non regge il paragone con l'Alessandrino, né a livello di accuratezza linguistica né di conoscenze filosofiche, ma la sua sensibilità verso l'ellenismo è innegabile. Qui non prendo in considerazione i dati che possono provenire dagli Atti lucani, in cui è sicura una operazione di filtraggio dell'autore. Sono infatti le lettere che rivelano indiscutibilmente il livello di influsso esercitato su Paolo dalla cultura ambientale. E in questa sede mi limito a segnalare l'incidenza della filosofia stoica sul suo pensiero.
Certo va detto chiaramente che Paolo non è affatto un rappresentante dello stoicismo, e una piccola ma significativa spia della differenza si vede nel suo uso pressoché inesistente del concetto di aretè, "virtù", che egli impiega una volta sola (in Filippesi, 4, 8), in un testo peraltro formulato in termini assiomatici, mentre lo stoicismo già con Zenone di Cizio la esalta addirittura come "sommo bene" e la identifica perfino con la felicità.
Ma vediamo più in dettaglio e in sintesi, senza presumere la completezza, alcuni punti che di fatto costituiscono un evidente terreno comune tra le due parti. In primo luogo richiamo quei testi, in cui l'Apostolo definisce la comunità cristiana e soprattutto gli stessi singoli cristiani come tempio-abitazione di Dio (cfr. i Corinzi, 6, 19: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?"). È vero che l'immagine del tempio applicata alla comunità intera (cfr. i Corinzi, 3, 16.17b) non è stoica, trovandosi invece a Qumràn (cfr. 1QS 8, 5; 11, 8s), ma propriamente stoica invece è l'idea di una presenza o inabitazione di un dio o del divino in ogni singolo uomo. Infatti lo si legge a chiare lettere in più autori, e cioè in Seneca, in Epitteto e in Marco Aurelio. Ovviamente la differenza sta nella concezione di questo ospite interno, che per gli stoici è il lògos razionale mentre per Paolo è lo Spirito Santo (cfr. anche ii Corinzi, 1, 22; Galati, 4, 6). Ma l'affermazione di una presenza divina nell'individuo è del tutto analoga.
Tipico ideale stoico è l'autàrcheia, cioè la facoltà di disporre autonomamente di se stessi senza dipendere dalle circostanze esteriori. Paolo condivide questo ideale e lo dice con chiarezza in i Tessalonicesi, 4, 12 ("Non avere bisogno di nessuno") e in Filippesi, 4, 11-12 ("Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione: ho imparato a essere povero e ho imparato a essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera; alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza"). Analogamente Epitteto dice di sé: "Sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi; il mio giaciglio è la terra; non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un unico mantello. Eppure, che cosa mi manca?" (Diatribe, 3, 22, 47). Il medesimo concetto paolino viene espresso da Marco Aurelio quando afferma esplicitamente di avere imparato ad "aver bisogno di poche cose e a fare da solo" (Ric. 1, 5: tò oligodeès kaì tò autourgikòn). Le parole e le idee di Paolo dunque ricalcano né più né meno quelle dello stoico.
Affine a questa tematica è il concetto di hypomòne, "pazienza, sopportazione" (Romani, 5, 3.4; 8, 25; 15, 4.5; ii Corinzi, 1, 6; 6, 4; 12, 12; i Tessalonicesi, 1, 3). Si tratta di un atteggiamento tipico della filosofia stoica, tanto che Seneca le dedicò un intero trattato: De constantia sapientis, "La fermezza/inalterabilità del saggio". Qui il filosofo si esprime con i bellissimi accenti di un ascetismo che avrà notevoli influssi anche sulla successiva spiritualità cristiana. Ciò che distingue l'Apostolo sono le motivazioni: esse non risiedono nella sola ragione, ma si fondano sui dati della fede e in specie dell'assimilazione a Cristo e della inabitazione dello Spirito.
In Romani, 1, 24-31 Paolo enumera una serie di vizi ritenuti conseguenza della idolatria come misconoscimento della vera identità di Dio da parte degli uomini. Per tre volte (vv. 24, 26, 28) egli afferma in termini ripetitivi che "Dio li consegnò" a una serie di passioni disonorevoli, che vanno dalla omosessualità alla mancanza di misericordia. Traspare qui un concetto tipicamente stoico secondo cui, così come la virtù è premio a se stessa, allo stesso modo il vizio è castigo a se stesso. È esattamente ciò che leggiamo in Seneca: "La massima punizione dei delitti sta in essi stessi" (Epistulae, 87, 24: maximum scelerum supplicium in ipsis est). Questa enunciazione stoica si fonda su delle premesse di fondo. In effetti, come scrive Max Pohlenz, "l'etica greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell'uomo ... e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori ... uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni".
L'uomo greco, infatti, fonda la moralità nient'altro che nella legge di natura e nel lògos inerente all'uomo. Il fatto che Paolo in Romani, 1, 24-31 non faccia nessun riferimento a un giudizio divino metastorico, oltre a porre una questione sulle dipendenze redazionali della lettera, è segno che, almeno in quella sezione, egli dipende da un background culturale extragiudaico.
Ciò che Paolo dice della comunità cristiana come sòma, "corpo" (Romani, 12, 4-5: "un solo corpo in Cristo"; i Corinzi, 12, 27: "voi siete corpo di Cristo") ha delle chiare equivalenze nella filosofia stoica. La definizione non appartiene certamente alla tradizione giudaica, perché nell'ottica di Israele non si poteva e non si può assolutamente parlare di un "corpo del Cristo cioè del Messia" e tanto meno di un "corpo di Adonai, cioè di Yhwh". Perciò l'interrogativo fondamentale consiste nel chiedersi se eventualmente esista a livello comparativistico un sintagma analogo a quello in oggetto a livello extratestuale. A questo scopo è necessario evitare (cosa che invece per lo più non si fa) quei casi in cui il concetto di corpo viene utilizzato soltanto in forma generica o assoluta. Bisogna ulteriormente escludere sia il riferimento al solo corpo morto di un persona, visto che Paolo intende comunque una entità vivente, sia il suo uso come semplice perifrasi per indicare una qualche persona viva individuale, sia anche la sua associazione a un termine astratto.
Occorre invece tenere in conto eventuali designazioni di un insieme, possibilmente di una collettività in quanto dipendente da una persona precisa o comunque relazionata a essa, in modo tale che specifichi il corpo con un genitivo.
Ebbene, per quanto è dato sapere, una costruzione di questo genere esiste per esprimere una doppia semantica: a livello cosmico per indicare l'universo e a livello politico per indicare la società civica. La prima, attestata in testi orfici di non facile datazione, descrive il cosmo come un corpo immenso identificato con Zeus (cfr. Frammenti orfici 168, 12.24: "Tutte queste cose [fuoco, acqua, terra, aria, notte e giorno] giacciono nel grande corpo di Zeus... corpo raggiante, incrollabile, immenso") oppure ne indica le varie parti come "membra" di un dio (cfr. Inni orfici 11, 3: qui, dopo aver definito il dio Pan come "totalità del mondo", si definiscono il cielo, il mare, la terra, il fuoco, come membra dello stesso Pan; nell'Inno 66 gli stessi elementi sono detti "membra di Efesto"). A livello politico, invece, una interessante costruzione analoga a quella paolina è reperibile in un dialogo dello stoico Seneca, nel quale il filosofo si rivolge a Nerone dichiarandogli addirittura: "Tu sei l'anima della tua repubblica ed essa è il tuo corpo (tu animus rei publicae tuae es, illa corpus tuum)", dove l'espressione "il tuo corpo" con l'aggettivo possessivo equivale di fatto a come se avesse il nome proprio ("il corpo di Nerone"). La distinzione qui operata tra animus e corpus è sicuramente interessante, ma in ogni caso il tono dell'insieme è celebrativo ed encomiastico; il filosofo infatti, scrivendo nell'anno 56, vuole fare l'elogio della clemenza di Nerone (quello dei primi anni!), che in quanto principe "è il legame grazie al quale l'insieme della cosa pubblica resta coeso" (vinculum per quod res publica cohaeret).
Una cosa è certa: il sintagma paolino non intende etichettare né una dimensione cosmica né un insieme politico, e per di più non è affatto laudativo. Resta perciò legittimo chiedersi come mai Paolo sia arrivato a una definizione tanto nuova e soprattutto che cosa propriamente essa significhi. A questo proposito bisognerà certamente richiamare alcuni dati cristologici tipici della fede cristiana, che qui tralasciamo. Ma in ogni caso un parallelismo almeno formale con l'ambito stoico è innegabile.
Da quanto abbiamo detto risulta che la battuta di Albert Schweitzer, citata all'inizio, va ridimensionata. Sicuramente ci sono tematiche paoline, assolutamente centrali nel pensiero di Paolo, che non hanno nessun debito verso la grecità: così è, oltre alle premesse giudaiche del monoteismo, del messianismo, e del ricorso esclusivo alle Scritture d'Israele, tutto ciò che riguarda la giustificazione per fede senza le opere della Legge, la risurrezione di Gesù, e anche l'intera tematica concernente l'escatologia. D'altronde, c'è anche qualcosa che non deve nulla né ai Giudei né ai Greci, come l'idea della rivelazione della potenza di Dio nell'impotenza della Croce, che è scandalo per gli uni e stoltezza per gli altri (cfr. i Corinzi, 1, 18-25).
Ma non si deve sottovalutare il fatto che l'Apostolo si dimostra comunque sensibile all'ambiente greco-romano in cui prevalentemente vive e opera. Si potrà dire che gli agganci con la grecità si collocano piuttosto a livello di linguaggio e che sono comunque marginali nel quadro del pensiero paolino. Resta il fatto che per sua stessa ammissione, l'Apostolo, oltre ad essere giudeo con i Giudei, si è fatto "con chi è fuori della Legge come se fosse senza Legge" (i Corinzi, 9, 21), ed è come se dicesse di essersi fatto "greco con i Greci".
La storia del pensiero cristiano continuerà su questa linea in forma anche più massiccia, come si vedrà per esempio a partire da san Giustino (con il suo concetto di lògos spermatikòs) fino almeno a san Basilio (con il suo Discorso ai giovani sulla cultura ellenica). Certo è che, pur senza cedere a forme di sincretismo ellenizzante, e contrariamente a quanto riteneva Tertulliano, "tra Atene e Gerusalemme" ci sono più cose in comune di quanto si sia preventivamente disposti a pensare.
Risultano evidenti il valore e la dignità delle culture umane, poiché esse di fatto sono state e restano capaci di fare da supporto e da veicolo alla Parola di Dio. Ciò significa che in esse c'è qualcosa di altamente positivo e di nobile già a livello nativo; infatti, secondo la legge dell'innesto, ci dev'essere omogeneità tra una pianta e un'altra perché l'una attecchisca sull'altra, senza incorrere in un rigetto. Una seconda conseguenza, più marginale, riguarda la relatività delle culture, sottoposte come sono a evoluzione e a mutamenti storici, come già dimostra la loro stessa pluralità. In tal senso, esse sono specchio dell'uomo, che Dio ha creato non monocorde ma estremamente versatile, a immagine della propria pienezza di possibilità. Perciò, parafrasando un testo paolino, è possibile dire che "la parola di Dio non è incatenata" a una sola cultura (cfr. ii Timoteo, 2, 9), ma corre in libertà (cfr. ii Tessalonicesi, 3, 1), sempre operando ciò per cui è stata mandata (cfr. Isaia, 55, 11).

(©L'Osservatore Romano - 21 maggio 2009)

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