mercoledì 13 maggio 2009

Oltre le critiche sprezzanti ed ingiuste al Papa: Un’ebrea commenta il discorso sulla Shoah (Magister)


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Veramente vergognose le considerazioni del giornale citato qui sotto.
Bello il commento di Anna Foa, ma purtroppo si tratta di una delle poche voci fuori dal coro, non sufficiente a far dimenticare l'amarezza.
R.

Nel nome di Abele. Un’ebrea commenta il discorso del papa sulla Shoah

“Indifferenza” e “banalità”: così il primo giornale liberal israeliano, “Haaretz“, ha liquidato fin dal titolo il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem.
Tom Segev, l’autore del commento, ha irriso i “cardinali del Vaticano” che avrebbero predisposto per il loro boss un testo così “povero di intelligenza” e così vuoto di quelle cose che il papa “aveva il dovere” di dire.
In campo ebraico, però, non tutti i commenti sono stati così squalificanti. Anzi. Qui di seguito ne è riprodotto uno di segno opposto. Che analizza il discorso del papa per quello che egli ha detto realmente, invece che secondo un copione prestabilito da altri.
Ne è autrice Anna Foa, docente di storia all’università di Roma “La Sapienza”, ed è stato pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 13 maggio:

*

Benedetto XVI al Memoriale di Yad Vashem

Il grido di Abele che sale dalla terra

di Anna Foa

Quella del papa al Memoriale di Yad Vashem è stata ben più che la visita di prammatica di un capo di Stato al luogo simbolo dello Stato israeliano. Essa ha posto infatti con forza il tema della Shoah e della sua memoria al centro del viaggio del papa, attribuendo a questo momento una priorità assoluta rispetto ad altri temi pur fondamentali, come quello della pace nel conflitto israelo-palestinese.
Le parole pronunciate da Benedetto XVI sono state una condanna nettissima del negazionismo e dell’antisemitismo. Sul negazionismo – tema che avremmo potuto pensare marginale fino a che le parole del vescovo lefebvriano non sono venute a portarlo per un attimo al centro dei rapporti ebraico-cristiani – il pontefice si era già espresso con chiarezza da Roma, e con la stessa chiarezza si è espresso ieri.
Ma tutto il suo discorso nel Memoriale di Yad Vashem è stato caratterizzato dalla necessità della memoria: dalla citazione iniziale del profeta Isaia: “Un monumento e un nome”, al toccante ricordo dei nomi degli scomparsi. Nomi di cui nemmeno i carnefici hanno potuto derubare le loro vittime, pur cercando con tutte le loro forze di farlo, come quando imponevano agli ebrei tedeschi di apporre ai loro nomi il nome Israel e Sara, destinato a palesarne la “razza”, o come quando Mussolini vietava, nel 1938, agli ebrei di avere un necrologio sui giornali.
Insistendo così sul nome, il papa si è posto in stretta vicinanza alla modulazione ebraica di questo tema, secondo cui ciascuna delle vittime, in quanto persona, portava un nome che rappresentava – come per Abramo e Giacobbe – la “sua missione unica”, il suo “dono speciale”. Come non ricordare la lettura in sinagoga dei nomi delle vittime nel giorno della Shoah, nella volontà di ridare voce e identità agli scomparsi?
Parole sulla memoria, quindi, ma anche parole su Dio e sugli imperscrutabili “disegni dell’Onnipotente”.
Un discorso tutto religioso, che riprende le parole del libro delle Lamentazioni sulle misericordie di Dio che “non sono finite”, che ripropone, nel luogo in cui si ricorda il massimo degli orrori, la domanda eterna sul male, rispondendovi, in chiave tutta religiosa, con fiducia e speranza.
Ma c’è anche altro, nelle parole pronunciate a Yad Vashem. C’è il proposito di legare l’evento specifico e storicamente irripetibile della Shoah a tutte le persecuzioni, trasformando il grido delle vittime della Shoah nel “grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente”. Una lettura quindi in chiave universalistica della memoria della Shoah, che non deve offendere anche se forse ha potuto generare turbamento in quanti vi hanno letto insensibilità verso la sofferenza propria e specifica degli ebrei assassinati in quanto ebrei.
Il conflitto tra una lettura “aperta” della Shoah e una lettura tutta interna all’ebraismo non è di oggi. E non è stata la Chiesa per prima, ma i filosofi, gli storici, i docenti – sia ebrei che non ebrei – a individuare la possibilità di gettare un ponte tra la Shoah e la comprensione di tutti i genocidi, i massacri, i razzismi: a vedere, quindi, nell’esercizio di questa memoria un momento di catarsi dell’essere umano che davanti a quel dolore può, e deve, cambiare.
Che questo sia stato detto da Benedetto XVI lì, nel Memoriale, può avere alimentato le diffidenze di quanti, in Israele, hanno visto nelle parole del papa soprattutto le assenze: carenza di dolore, mancanza di autocritica del secolare “insegnamento del disprezzo”, o di quanti hanno confrontato le parole pacate di Benedetto XVI con la “teshuvà” emozionata di Giovanni Paolo II.
Ma questo è solo il segno, da una parte, del fatto che le ferite ancora non sono – e come potrebbero esserlo? – rimarginate. E dall’altra dell’aspettativa gigantesca e incolmabile creata da questa visita del papa.

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