mercoledì 12 novembre 2008
Dio non è cattolico, parola di cardinale. Dura ed argomentata critica del Prof. De Marco alle affermazioni del card. Martini (Magister)
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Dio non è cattolico, parola di cardinale
Carlo Maria Martini pubblica un libro "sul rischio della fede" e invita a diffidare delle definizioni dottrinali, perché Dio "è al di là". Ma così il rischio è che svaniscano gli articoli del Credo, obietta il professor Pietro De Marco. E spiega perché
di Sandro Magister
ROMA, 12 novembre 2008
L'ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini uscito in Italia, come già qualche mese fa in Germania e ora anche in Spagna, ha subito conquistato l'alta classifica dei più venduti. È intitolato "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede", ed è in forma di intervista, col gesuita tedesco Georg Sporschill.
Le volte in cui Benedetto XVI ha parlato in pubblico del cardinale Martini – famoso biblista e arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002 – lo ha sempre elogiato come "un vero maestro della 'lectio divina', che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura".
In questo suo libro, però, il cardinale non appare altrettanto magnanimo, nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi papi, da Paolo VI in poi.
In un precedente servizio, www.chiesa ha già riferito dell'attacco frontale portato da Martini contro l'enciclica "Humanae Vitae".
Ma nel libro c'è di più. C'è una ricorrente accusa alla Chiesa di "involuzione". Mentre all'opposto Martini reclama una Chiesa "coraggiosa" e "aperta", come dicono i titoli di due capitoli del libro.
C'è soprattutto una descrizione di Gesù legata a un'ideale di giustizia molto terreno. La distanza tra questo Gesù e il "Gesù di Nazaret" del libro di Benedetto XVI è impressionante.
Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", nel dare notizia del libro di Martini in occasione del suo lancio alla Fiera del Libro di Francoforte, il 17 ottobre, ha scritto che "molte delle considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere".
Ma non ha aggiunto altro. "Avvenire" non ha sinora recensito il libro e nessuno si aspetta che lo farà in futuro. Silenzio assoluto anche a "L'Osservatore Romano".
In privato, ai gradi alti della gerarchia, le critiche all'autore del libro sono severe e preoccupate. Ma in pubblico la regola è di tacere. Il timore è che contestare pubblicamente le tesi di questo libro aggiunga danno a danno.
Ma qual è, più analiticamente, il "rischio della fede" che il cardinale Martini evoca?
Pietro De Marco, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale, lo porta alla luce e lo sottopone a critica nel commento che segue.
Per De Marco il messaggio del cardinale appare "reticente quanto a completezza della confessione di fede". C'è in esso molta frequentazione delle Sacre Scritture, ma gli articoli del Credo "vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli".
Un'evanescenza dei fondamenti della dottrina che ha contrassegnato non solo il percorso di un grande leader di Chiesa come Martini, ma larga parte della Chiesa cattolica degli ultimi decenni.
Osservazioni sulle "conversazioni notturne" di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill
di Pietro De Marco
La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di "giovani", ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.
Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l'intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesù.
Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: "come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?" (p.19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un "buon cristiano"? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue "perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta".
Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei "mondi vitali", Martini inizia con l'evocare scene familiari e "semplici usanze".
Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L'educazione religiosa proposta dal cardinale è di "ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle", per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: "Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio" (p.20).
Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c'è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione", ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la "ampiezza della visione di Dio" dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesù che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. "Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli", prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: "Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto". Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.
Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una "apertura" di cuore resta del tutto indeterminato. L'unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell'amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di più che un pensare "in modo aperto" alla maniera dei moderni; un "aperto" che si oppone a ciò che Sporschill liquida come "mentalità ristretta".
Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a "semplici usanze". Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice.
Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la "lex orandi" e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del "pensare in modo biblico" e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli "spiriti aperti" alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor più gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e "pensare in modo biblico".
Il "vivere la vastità dell’essere cattolico" non si compie neppure nel guardare "i poveri, gli oppressi, i malati". Quello che il cardinale chiama il "rischio" della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un "rischio" ma è il fondamento di quella "vastità", è ciò che davvero ci fa "aperti".
Senza sottovalutare i "mondi vitali" che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull'equazione tra "pretesa di verità" e "chiusura" intellettuale e morale.
Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: "Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio".
Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.
Trovo infelice anche la formula del "Dio cattolico", quasi che le teologie su Dio della "Catholica Ecclesia" rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è "per la vita", cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle "definizioni"; infatti è molto più pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le "summae" teologiche sono più e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesù Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.
Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: "Gesù si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia". E a p. 24: "Gesù ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione". Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesù "si è battuto in nome di Dio" come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesù implichi un antagonismo più spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica.
Tradizione che innerva invece profondamente il "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesù di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.
Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all'enciclica di Paolo VI "Humanae vitae", che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica "con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale", dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: "Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae".
Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a "chiedere scusa", naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.
Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la "Humanae Vitae", da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa "madre e maestra"? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.
Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell'attuale passaggio di civiltà.
Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell'intellettuale.
Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle "colpe del cristianesimo".
Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): "Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo".
Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesù: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di più profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c'è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle "persone pensanti"? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?
È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Così, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso "non clericale".
L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.
Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale "esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesù e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc.". Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi "nella loro forma completa, solo per pochi", e i "numerosi esercizi facili" per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta "vulgata", si legge: "La seconda settimana è contemplare il regno di Iesù Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra". L’autografo di Ignazio è più secco: "El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal", ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il "buon cristiano" e per la sua vita di fede?
Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante "considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum", salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri "vexilla" e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesù, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.
È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.
© Copyright www.chiesa consultabile online anche qui.
E' incredibile...peggio di quanto potessi immaginare!
Mi fido del professor De Marco e quindi non andro' alla fonte.
Per me, infatti, vale il detto latino: "ubi maior minor cessat".
Per questa ragione terro' in bella vista il "buon Gesù di Ratzinger" secondo la battuta inqualificabile di Sporschill, non corretta da Martini!
Resta un fatto incontestabile: Benedetto XVI ha piu' volte elogiato il cardinale emerito e che cosa ha avuto in cambio?
La risposta e' ovvia...
R.
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10 commenti:
Lo Spirito Santo sapeva ciò che era meglio per la Chiesa cattolica quando, il 19 aprile 2005, ha ispirato i cardinali a collocare il Card. Ratzinger sul Soglio di Pietro.
Alessia
il papa può togliere la porpora a un cardinale?
Perfettamente d'accordo con Alessia :-)
Caro/a anonimo, anche se si potesse fare (personalmente non lo sono in grado di dirlo) il problema non si pone perche' Benedetto XVI non lo farebbe mai.
R.
Cara Alessia credo che se in quel 19 Aprile 2005 lo Spirito santo avesse lasciato fare agli uomini, ora saremmo in condizioni non disastrose di più!!!!!!!!
GRAZIE A DIO ABBIAMO BENEDETTO XVI!
Per il resto ritengo inqualificabile l'atteggiamento del card. Martini e non voglio dilungarmi su questo, perchè non ci sono parole.
Su Settimo Cielo:
Da Martini a Odifreddi: tutti i luminari dell’università “cattolica” di don Verzé
Alessia
Cari e care , solo adesso trovo un po’ di tempo. In realtà lo scritto di De Marco meriterebbe spazio, tempo e anche una competenza che non mi sogno di avere.
Diciamo così: quello che De Marco dice, il credente da tutti giorni lo sente a pelle. Io non discuto che ci siano sensibilità vicine a Martini. Ma non ci sono solo quelle .I cattolici sono più di un miliardo, ci sono tanti modi di vivere la fede, diversi gradi di maturazione nelle persone. Questo non mi stupisce, anzi è un bene. Quello che mette a disagio in Martini è la sensazione che il gusto del dubbio e della ricerca, elevato a sua volta a dogma , arrivi a lambire anche i fondamentali. Naturalmente la cosa è ingigantita dal fatto che Martini è un cardinale, ovvio che non ha divorziato dal cervello per questo, ma è anche vero che ha fatto un libero giuramento di fedeltà al santo Padre e alla Chiesa tutta ,di fronte a Dio. Così un credente da tutti i giorni come me si aspetterebbe di leggere altre cose.
Perché sotto il fascino di certi ragionamenti (che però non ipnotizzano tutti, io per esempio rimango tiepidina, sono troppo vecchietta per impressionarmi) hai l’impressione che veramente certe parti del Credo , come dice de Marco, diventino opzionali, discutibili . E guarda caso sono proprio quelle parti che potrebbero portare in rotta di collisione con il pensiero dominante e il senso comune o le altre religioni. Ma il cristianesimo non è senso comune, è scandalo e follia da gridare sui tetti : così tutti gli elogi che il cardinale riceve sui media ne hanno minato, col tempo, la credibilità ai miei occhi. Perché io so che quello che il cardinale ha detto,dice e dirà, viene tempestivamente incensato dai media,mentre io avrei preferito l’incenso della chiesa. Lui è stato e viene usato continuamente anche da gente che non ne ha letto una riga, e tante volte l’ho difeso perché vedevo con i miei occhi che veniva strumentalizzato ,ma il peggio è che è stato usato, come ha detto una volta sinceramente Lerner , “come sponda politica”.E questo non mi va giù. Soprattutto quando constato che al cardinale va bene così.
Il cardinale è un uomo intelligente e profondo, per come lo conosco dai suoi libri (non questo, non lo comprerò) ma c’è qualcosa che stride , almeno per le mie povere e semplici orecchie. Ma più che Martini trovo insopportabili i martiniani che non gli hanno mai fatto un buon servizio. Sono , spesso, di un’arroganza senza pari , profeti integerrimi del dubbio, dispensatori di pagelle morali e teologiche , sempre in rotta con il Magistero , come se fosse una vergogna, una cosa da smussare pubblicamente, anzi da occultare.
Credo che i martiniani vadano ben oltre Martini. Ma esisterebbero se lui non parlasse come parla?
E se fosse diventato papa, ma, veramente ,cosa tanti credenti avrebbero dovuto pensare? Certo i salamelecchi mediatici e i peana di certi intellettuali fanno piacere, ma nel breve periodo. E dopo?Le persone semplici, le persone che generosamente e con fiducia seguono il Magistero che impressione ne avrebbero riportato se avesse parlato come parla nel libro. Si potrebbe obiettare: parla così proprio perché non è papa e se lo può permettere.
Comoda la vita, dico io.
Quando leggo:
"Così, analogamente, non è facile stabilire quando cominci esattamente una vita umana, soprattutto quando un essere possa essere chiamato «persona» o «individuo» e sia soggetto di diritti e di doveri.
...
Tuttavia non si può negare che vi siano differenze importanti che riguardano il valore della persona e l' attenzione con cui la società è chiamata a valorizzarla e a proteggerla. "
Sono profondamente scioccata e lo sono al massimo perchè a dire queste "enormità" è un cardinale con l`influenza di Martini.
Ma come può un cardinale affermare che non si sa quando comincia la vita ?
Che vi sono differenze importanti nel valore della persona ?
È a questi pensieri che è arrivato un cardinale sul tramonto della sua vita?
Sono affermazioni talmente gravi e permettetimi di dire, assurde, inconcepibili, scioccanti, che non possono che creare ancor più confusione e separazione nella Chiesa, che già vive una contestazione sistematica del Magistero petrino .
Magistero che è su questi punti di una chiarezza cristallina.
Ma, a questo punto mi vien da dire...che importa al cardinale il Magistero del Successore di Pietro?
Che gli importa di suscitare confusione, di alimentare la divisione ?
Ebbene amici miei alle conversazioni notturne di Martini preferisco le conversazioni diurne, come quelle di stamattina, di Benedetto XVI, il nostro caro Papa che ha bisogno di tutte le nostre preghiere .
Cara luisa ti dò pienamente ragione. Da sempre si parla e si è parlato anche in passato che la vita umana comincia al momento del concepimento ed ha fine secondo la sua fine naturale; punti che sono stati difesi strenuamente da ogni Pontefice; non dimentichiamoci, che martini fu uno dei più agguerriti critici dell'Enciclica di GPII in cui veniva difeso il valore della vita umana che deve essere tutelata in ogni sua tappa; devo dedurre da questa frase che, per Martini non è così questo significa essere in pieno contrasto con il magistero della chiesa, soprattutto, per quanto riguarda i famosi valori non negoziabili. Per questo modo di creare dubbi ed incertezze nei credenti portando avanti per giunta una linea che sembra al passo con i tempi, Martini, diventa l'ancora di salvezza di tutti coloro e sono tanti, che vivono della religione fai da te, che si professano cattolici credenti ma, che sono difensori per motivi diciamo pratici ideologici e personali, dell'eutanasia, dell'aborto e di quant'altro possa comportare la manipolazione da parte dell'uomo, della propria esistenza. Cara mariateresa dell'arroganza dei filo - martiniani, ne ho fatto le spese personalmente l'anno scorso; persone che si rifiutano di confrontarsi sul magistero e non solo ma, che impongono il proprio punto di vista in tutti i modi possibili ed immaginabili anche su argomenti, che non conoscono affatto. Resta comunque il fatto che questo continuo tirare bordate al magistero non solo di Benedetto XVI ma anche, a quello dei suoi predecessori, contrasta senza dubbio, con la promessa di ubbidienza e di fedeltà al Papa qualsiasi esso sia; un comportamento in assoluto criticabile e del tutto fuori luogo.
Cara luisa ti dò pienamente ragione. Da sempre si parla e si è parlato anche in passato che la vita umana comincia al momento del concepimento ed ha fine secondo la sua fine naturale; punti che sono stati difesi strenuamente da ogni Pontefice; non dimentichiamoci, che martini fu uno dei più agguerriti critici dell'Enciclica di GPII in cui veniva difeso il valore della vita umana che deve essere tutelata in ogni sua tappa; devo dedurre da questa frase che, per Martini non è così questo significa essere in pieno contrasto con il magistero della chiesa, soprattutto, per quanto riguarda i famosi valori non negoziabili. Per questo modo di creare dubbi ed incertezze nei credenti portando avanti per giunta una linea che sembra al passo con i tempi, Martini, diventa l'ancora di salvezza di tutti coloro e sono tanti, che vivono della religione fai da te, che si professano cattolici credenti ma, che sono difensori per motivi diciamo pratici ideologici e personali, dell'eutanasia, dell'aborto e di quant'altro possa comportare la manipolazione da parte dell'uomo, della propria esistenza. Cara mariateresa dell'arroganza dei filo - martiniani, ne ho fatto le spese personalmente l'anno scorso; persone che si rifiutano di confrontarsi sul magistero e non solo ma, che impongono il proprio punto di vista in tutti i modi possibili ed immaginabili anche su argomenti, che non conoscono affatto. Resta comunque il fatto che questo continuo tirare bordate al magistero non solo di Benedetto XVI ma anche, a quello dei suoi predecessori, contrasta senza dubbio, con la promessa di ubbidienza e di fedeltà al Papa qualsiasi esso sia; un comportamento in assoluto criticabile e del tutto fuori luogo.
Molti sacerdoti ambrosiani - anche il mio direttore - sono subito corsi a comprare il libro del loro venerato ex-Arcivescovo.
Io abito vicino a Lecco.
Dio mio, che dolore vivere la vicenda di Eluana Englaro da una parte e al contempo vedere che una parte di Chiesa apre queste voragini di dubbi nella già vacillante fede e obbedienza dei credenti!
Mi si oppone che è legittimo ed anzi fruttuoso che nella Chiesa ci siano opinioni diverse su aspetti non dogmatici, ma per questo bisognerebbe attenersi - credo -a quanto giustamente previsto nel
Documento "Apostolorum Successores", della Congregazione dei Vesovi, al n. 13:
"Conscio della sua responsabilità per l’unità della Chiesa e tenendo presente con quanta facilità oggi qualunque dichiarazione venga conosciuta da larghi strati dell’opinione pubblica, il Vescovo si guardi dal mettere in discussione aspetti dottrinali del Magistero autentico o disciplinari per non recare danno all’autorità della Chiesa e a quella sua propria; egli ricorra piuttosto agli ordinari canali di comunicazione con la Sede Apostolica e con gli altri Vescovi, se ha questioni da porre al riguardo di tali aspetti dottrinali o disciplinari."
Preghiamo, preghiamo, preghiamo.
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