mercoledì 16 settembre 2009

Card. Caffarra: “L’etica è la verità circa il bene dell’uomo”


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Clicca qui per leggere l'articolo di Zenit.

Su segnalazione del nostro Massimo leggiamo il testo dell'intervento del cardinale Caffarra:

Testo del 12 settembre 2009

Ratio ethica e ratio technica: alleanza, separazione o conflitto?

Relazione nella sala dello Stabat Mater dell'Archiginnasio su invito della Società Medica Chirurgica di Bologna

La questione del rapporto fra la ragione tecnica e la ragione etica è uno dei nodi dell’attuale dibattito contemporaneo sull’uomo. Nel breve spazio di una conferenza non mi è possibile neppure avvicinarmi ad una completezza di trattazione del tema; mi devo limitare ad alcuni punti essenziali.
Inizio dalla semplice ma necessaria chiarificazione dei termini. La ragionevolezza tecnica e la ragionevolezza etica sono due realizzazioni della ragionevolezza pratica: due species dello stesso genus, la ragione pratica.
Ma cos’è allora la ragione pratica? Quando l’uomo fa uso pratico della sua ragione? Quando regola l’esercizio della sua libertà e dei propri dinamismi operativi in ordine al raggiungimento di uno scopo. La ragione pratica è la regolamentazione della propria libertà e dei propri dinamismi operativi. Mi sia consentito un esempio. Lo studio della meccanica celeste costituisce esercizio della propria ragione. Ma certamente non esercizio pratico, poiché lo studio riguarda realtà che non dipendono dalla libertà umana.
Questo è il genus “ragione pratica”. In che cosa si differenziano fra loro le due species, ragione tecnica – ragione etica? Siamo ad un punto fondamentale della nostra riflessione.

1. La ragione tecnica regolamenta il fare dell’uomo; la ragione etica regolamenta l’agire dell’uomo. La differenza fra questi due modi di operare consiste nel fatto che il fare non perfeziona la persona come tale che opera, ma semplicemente esprime la sua capacità di fare bene qualcosa [una casa, un ponte, un utensile…]; l’agire al contrario perfeziona la persona come tale che agisce, poiché il termine o effetto dell’azione è intrinseco al soggetto agente stesso. Un solo esempio. Chi ruba, diventa un ladro: il termine dell’agire è la persona che agisce. Chi costruisce male un ponte, dimostra solo di essere un cattivo costruttore, poiché è la qualità del prodotto che interessa.
In sintesi potremmo dire: il fare è sempre transitivo ed esteriorizza la persona; l’agire è sempre intransitivo ed interiorizza la persona.
La seconda differenziazione specifica consegue alla prima. Questa – la prima differenziazione – fonda ed esige due attitudini essenzialmente diverse nella persona: l’abilità tecnica e la sapienza pratica.
L’abilità tecnica dispone l’uomo a produrre bene, cioè ad effettuare prodotti perfetti, in grado cioè di servire allo scopo per cui sono fatti. La sapienza pratica dispone l’uomo ad agire bene, cioè a compiere quelle scelte che sono conformi al bene della persona come tale, e sono capaci di realizzare una buona vita umana.
Da queste due fondamentali differenziazioni deriva che la logica della ragione tecnica è profondamente diversa dalla logica della ragione etica. Per logica intendo il complesso delle regole che la ragione segue quando è in atto.
La logica propria della ragione tecnica è l’efficacia. Essa in sostanza, prima di mettersi in atto, deve rispondere a due domande fondamentali: ciò che intendo fare è fattibile? [Comunemente si dice: è tecnicamente possibile?]; il costo della produzione è inferiore o equivalente ai benefici? [la regola del rapporto costo – benefici]. Qual è la qualità del prodotto? È poi la domanda che a produzione finita il tecnico si pone sempre. Qualità significa, secondo la logica tecnica, capacità del prodotto di rispondere alla domanda per cui è stato chiesto.
La logica propria della ragione etica è completamente diversa. Essa, la ragione etica, non si accontenta di chiedere se l’azione che la persona umana sta per compiere è tecnicamente possibile, ma se è un’azione buona o cattiva, giusta o ingiusta; l’equivalenza costi-benefici non interessa alla ragione etica: il martirio comporta il costo più grande, la propria vita, ma il martire non ne fa conto. La capacità della sua azione di rispondere ad esigenze estrinseche non è tenuta in conto dalla ragione etica, dal momento che essa non giudica in base alle conseguenze del suo agire.
Ma fino ad ora abbiamo presentato la logica della ragione etica per contrarium alla ragione tecnica. Possiamo però tentare una definizione descrittiva diretta.
La logica etica in sostanza è la logica della verità circa il bene della persona. Essa, quando si mette in atto, risponde alla seguente domanda: che rapporto esiste fra questo atto che sto per compiere e la realizzazione vera di me stesso come uomo? La pagina manzoniana che espone la riflessione che l’Innominato fa nella famosa notte sulla propria vita passata è una delle più potenti raffigurazioni della ragione etica. La domanda sul significato etico dell’azione che la persona sta per compiere è la domanda circa il modo con cui l’azione si inscrive nel progetto fondamentale della vita di chi agisce; è la domanda circa la relazione fra l’azione che sto per compiere e l’orientamento della volontà ad una vita veramente buona.
La logica tecnica è quindi una logica attinente agli strumenti in ordine ad uno scopo: una logica strumentale. La logica etica è una logica progettuale: riguarda la realizzazione di sé in quanto progettata dalla ragione e attuata dalla libertà.
San Tommaso esprime tutto questo in modo esemplarmente limpido, quando scrive: Ratio aliter se habet in artificialibus, et aliter in moralibus… In moralibus ordinatur ad finem communem totius humanae vitae [I, II, q. 22, a. 3, ad secundum]. E quindi, mentre la logica tecnica riguarda risposte particolari a bisogni particolari, la logica etica riguarda quae pertinent ad totam vitam hominis et ad ultimum finem vitae humanae [I, II, q. 97, a. 4, ad tertium].
Da questa nostra prima riflessione consegue che alla persona ragionevole non è chiesto di scegliere se usare eticamente la sua ragione oppure se tecnicamente. Ragione tecnica e ragione etica non sono alternative. Per almeno due motivi:
Il primo. Non si tratta di due facoltà spirituali, lasciate alla libertà dell’uomo. È la stessa identica ragione che può essere usata e in un modo e nell’altro, dal momento che la logica intrinseca ai due usi è distinta.
Da ciò deriva che l’optare per l’una o per l’altra è sempre un impoverimento dell’uomo, perché riduce le sue capacità razionali. Una cultura che non coniuga assieme le due possibilità è una cultura povera.
Il secondo. Ragione tecnica e ragione etica si propongono lo stesso fine: il bene della persona umana. Questa prospettiva merita un’attenta considerazione.
Il bene denota la condizione di realizzazione delle inclinazioni della persona umana. Pertanto esistono tanti beni umani quante sono le risposte soddisfacenti le inclinazioni umane. È rimasta classica la sistemazione tommasiana in tre originarie inclinazioni umane: inclinazione a vivere [il bene umano della vita]; inclinazione al rapporto sessuale uomo-donna [bene umano del matrimonio e della procreazione]; inclinazione alla convivenza sociale [bene umano della società] e alla conoscenza della verità dell’intero [bene umano della religione].
Si deve tuttavia fare attenzione che queste inclinazioni e correlativi beni umani non sono come linee parallele, ma sono intimamente unificate dalla loro intrinseca esigenza ad essere realizzate in modo “umano”. Non un qualsiasi modo di vivere in società è cercato dall’uomo, ma vivere in una società giusta; non un qualsiasi rapporto uomo-donna è umanamente degno; l’esperienza religiosa deve essere accuratamente difesa dalla superstizione.
Esiste cioè un’esigenza inscritta nella persona umana come tale di vivere secondo un ordine, una bellezza intelligibile. In una parola: secondo ragione.
Esiste nell’uomo l’inclinazione a vivere che sembra condividere con ogni organismo vivente. Ma in realtà l’inclinazione vitale nell’uomo è abitata da una esigenza secondo la quale non basta vivere, ma sono necessarie ragioni per cui “vale la pena di vivere”.
La ragione tecnica si pone al livello dell’inclinazione a vivere condivisa con ogni organismo vivente; la ragione etica è la ricerca del senso della vita.
L’operetta morale di Leopardi – Dialogo fra scienziato e metafisico – è al riguardo esemplare.
Quando dunque parliamo di ragione etica, intendiamo l’uso che la persona umana fa della sua ragione, quando, inclinata a vivere dignitosamente, cerca di scoprire le modalità di un’autorealizzazione vera.
Anche da questo punto di vista, dal punto di vista del soggetto agente, ragione tecnica e ragione etica non sono nemiche: lavorano al bene dell’uomo su piani diversi. Ma è altrettanto vero che la ragionevolezza tecnica deve integrarsi nella ragionevolezza etica. Integrazione non significa annessione; significa subordinazione. Una tecnica insubordinata all’etica porta alla devastazione dell’humanum e del cosmo.
Faccio un esempio. Tutti sono concordi nel ritenere che sono necessari nuovi “global legal standard” per superare l’attuale crisi finanziaria ed economica [proibizione dei contratti speculativi, eliminazione dei paradisi fiscali …]. È la ragione tecnica che è chiamata a un grave lavoro. Ma senza una forte ragione etica, quel lavoro sarebbe inefficace.

2. Chiarita la distinzione e la possibilità per l’uomo di essere e tecnicamente ed eticamente ragionevole, di usare cioè la sua ragione pratica in due modi specificamente distinti, vorrei ora mostrarvi come stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione culturale.
Essa consiste nella riduzione della ragionevolezza pratica alla sola ragionevolezza tecnica. Riduzione speculare alla riduzione della ragionevolezza teoretica alla ragionevolezza scientifica. Tecnicismo e scientismo sono i due colpi mortali inferti alla ragione. Vi è un rapporto fra i due. Ma ritorno subito al primo riduzionismo.
Parto da un fatto. Il 30 luglio scorso, il C.d.A dell’AIFA ha autorizzato a maggioranza l’immissione in commercio della RU486. L’organismo in questione ha competenza esclusivamente tecnica; esso deve giudicare l’idoneità del farmaco con riferimento alla salute della donna.
Il fatto dà da pensare. Si sono censurate domande che non sono per la razionalità tecnica, ma per quella etica, sia nel suo uso privato, che nel confronto pubblico, politico. Ciò che è tecnicamente possibile fare è eo ipso ragionevolmente agibile. Siamo cioè davanti ad una vera e propria annessione della ragione etica da parte della ragione tecnica. Annessione che non dico toglie sovranità alla ragionevolezza etica, ma ne nega persino l’autonomia di senso.
Lasciando ora la considerazione di questo fatto, al quale se ne potrebbero aggiungere altri, quali per esempio la dicotomia fra l’economico e il sociale, facciamoci una domanda di fondo: come è stato possibile teoreticamente il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica, sequestro a cui è conseguita la prassi di una tecnocrazia inappellabile? Cercherò ora di rispondere in maniera essenziale a questa domanda. Sono pienamente cosciente della difficoltà che si incontra a costruire una risposta a quella domanda.
La mia risposta, in sintesi, è comunque la seguente: è l’ingresso nella coscienza europea della definizione dell’uomo come soggetto utilitario, che ha consentito sul piano teoretico il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica, e sul piano pratico l’avvento della tecnocrazia.
Il punto basilare della mia risposta è la concezione di «soggetto utilitario». La definizione descrittiva che ne dà il F. Botturi mi sembra molto chiara e precisa. «Con soggetto utilitario si può intendere l’idealtipo dell’agente il cui orizzonte antropologico è costituito dai suoi bisogni ed interessi (…), il cui criterio di soddisfazione è polarizzato dalla psicologia centripeta dell’amor proprio: bisogni ed interessi sempre mediati affettivamente da passioni e sentimenti rispetto a cui la ragione si auto interpreta, in modo nuovo, come funzione pratica strumentale di calcolo, di previsione, di effettuazione» [La generazione del bene. Gratuito ed esperienza morale, V&P. Milano 2009. pag. 274].
Per capire dunque la definizione dell’uomo come soggetto utilitario, occorre tenere presenti i seguenti punti.
Primo. Ciò che muove la persona ad agire, a compiere una scelta piuttosto che un’altra, sono esclusivamente i suoi bisogni ed interessi mediati dalle passioni.
Secondo. La costruzione della propria vita secondo questo modello centripeto non può essere giudicata dalla ragione. In altre parole, la domanda se esista una realizzazione veramente buona della vita umana che si contrapponga ad una realizzazione solo apparentemente buona, è stata privata di senso. Ciascuno è giudice di sé stesso quanto alla sua concezione di una vita buona: de gustibus non est disputandum!
Terzo. La ragione pratica viene spossessata della sua capacità di giudicare la verità o meno di una concezione, di un progetto di vita buona, dal momento che non esistono criteri universalmente validi [e la ragione è comunque la facoltà dell’universale] per discernere progetti veri da progetti falsi.
Alla ragione non resta che studiare il modo con cui realizzare i desideri, e rispondere ai bisogni: ha solo una funzione strumentale. Verificare la possibilità tecnica di realizzazione¸ calcolare il rapporto costo-benefici; prevedere la qualità del risultato. E questa è la definizione di ragione tecnica.
Mi fermo un momento su questo punto, perché è fondamentale. La ragione non è in grado di giudicare ciò che il desiderio passionale vuole; non ha la capacità di pronunciare giudizi universalmente validi di valore circa i “fini desiderati/passionali” dell’uomo. E pertanto non ha la capacità di pronunciare giudizi universalmente validi di valore circa le singole scelte ed atti in rapporto alla progettazione totale della vita [ad totam vitam hominis, direbbe Tommaso].
La ragione è solo chiamata a verificare quali sono le vie, i mezzi per realizzare il fine desiderato. Cioè: la razionalità etica consiste nella razionalità tecnica.
Riassumo quanto sono venuto dicendo in questo secondo punto. il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica è la conseguenza di una concezione dell’uomo, che si è andata imponendo nella coscienza europea. Una concezione “individualista” che ha generato il “paradigma utilitarista” come interpretazione esclusiva dell’agire umano.

3. Vorrei ora in questo terzo ed ultimo punto condurre una breve riflessione circa la condizione della professione medica alla luce di quanto ho detto sopra.
La riflessione sulla professione medica è un punto di vista privilegiato per prendere coscienza lucida della problematica sopra schizzata. Per quale ragione? Perché la professione medica è l’incrocio della ragionevolezza etica con la ragionevolezza scientifico-tecnica: fin dall’inizio, come dimostra il giuramento di Ippocrate. L’esercizio della professione medica, infatti, lungo i secoli è andata elaborando un suo codice etico – una sua deontologia – risultato della simultanea coniugazione e di ragionevolezza etica e di esperienza professionale. La deontologia medica nasce e cresce sulla consapevolezza di una identità della professione, che non è semplicemente definita da una consenso sociale. È frutto di esemplari figure mediche; di rapporti fra maestri riconosciuti e discepoli; di trasmissione di un ethos condiviso.
Ma nello stesso tempo, la professione medica è esercizio di ragionevolezza scientifico-tecnica. Non insisto su questo, perché direi delle ovvietà.
Che cosa significa per la professione medica il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica? Prima di rispondere devo introdurre nella mia riflessione una tematica di carattere più generale. Potevo farlo prima; non ho voluto, per non sovraccaricare troppo il percorso che andavo facendo.
La comparsa del soggetto utilitario, o meglio il paradigma dell’utilitarismo usato come cifra interpretativa unica della soggettività umana, ha avuto conseguenze assai rilevanti sull’uso pubblico della ragione etica, sull’etica pubblica cioè. Etica pubblica che ha nella produzione delle leggi una delle sue manifestazioni più importanti. Mi limito solo al nodo centrale di questa problematica.
Partendo dal presupposto che la ragione umana non è capace di pronunciare un giudizio sulle concezioni e progetti di vita buona sulla base di argomentazioni universalmente condivisibili, si conclude che la regolamentazione dei rapporti sociali deve essere eticamente neutrale. Nessuna concezione di bene, di vita buona, deve transitare attraverso la norma giuridica. Ciascuno deve essere libero di compiere i suoi desideri. In sintesi, la costruzione dell’ordinamento giuridico deve prescindere dal soggetto agente, dalla sua auto-comprensione esistenziale.
In questo contesto si vanno imponendo due conseguenze sull’ambito della professione medica.
La prima. Non esiste una identità della professione medica come fonte di giudizi e norme morali, che preceda e la legislazione statale e il rapporto col paziente. Il richiamo al principio: “questo non può essere richiesto al medico come tale”, è un richiamo sempre più debole e di fronte allo Stato e di fronte al privato. Resiste ancora la figura dell’obiezione di coscienza: fino a quando?
La seconda. Il rapporto medico-paziente si configura sempre più come offerta, prestazione d’opera per soddisfare un desiderio, un bisogno. La prestazione deve solo essere tecnicamente corretta. Poiché la correttezza tecnica è sempre più o meno a rischio, è necessario assicurarsi contro ogni rischio.
Il rapporto medico-paziente cessa progressivamente di essere pensato come alleanza terapeutica, e diviene sempre più prestazione d’opera tecnicamente corretta su richiesta. Dei due fondamentali referenti della professione medica, scienza e coscienza, va progressivamente scomparendo il secondo. Cioè: il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica non sta risparmiando la professione medica. Anzi, è uno dei luoghi in cui è più agevole vederne gli effetti devastanti [assieme al campo dell’attività economica]. Uno di questi è la degradazione della professione medica.

4. Sono giunto alla conclusione. Qualcuno vedendo la “sconfitta” della ragione etica, potrebbe pensare: “tanto peggio per essa!”. In realtà come ho già detto, e come risulta da tutta la precedente riflessione, questa sconfitta è in realtà la sconfitta dell’uomo in quanto tale, la sua riduzione ad oggetto.
Che cosa questo, alla fine, significhi, posso esprimerlo attraverso il confronto fra il comportamento di Sir Ugo de Morville e di Abramo.
Il primo è uno dei cavalieri che nel dramma di T.S. Eliot Assassinio nella Cattedrale uccidono l’arcivescovo Th. Becket. Ad assassinio avvenuto Sir Ugo de Morville si rivolge agli spettatori e giustifica l’omicidio nel modo seguente:

“A nessuno dispiace più che a noi d’essere obbligati a usare violenza. Sfortunatamente vi son tempi nei quali la violenza è l’unico modo per poter assicurare la giustizia sociale. In altri tempi voi condannereste un Arcivescovo con un voto del Parlamento e lo decapitereste con tutte le forme come traditore e nessuno porterebbe la taccia di assassino … Ma se voi siete ora arrivati a una giusta subordinazione delle pretese della Chiesa al benessere dello Stato, ricordatevi che siamo stati noi a fare il primo passo”.

Ben diversa è l’attitudine di Abramo quando venne richiesto dal Signore di sacrificare il figlio. Anzi contraria. Egli sa semplicemente che per essere se stesso, deve uccidere il figlio, poiché questa obbedienza lo fa diventare ciò che è: il servo del Signore. Sulla base di un calcolo delle conseguenze, questa era l’unica scelta completamente sbagliata. La discendenza sarebbe finita, e con essa ogni futuro.
Chi ha ragione? “Dal punto di vista della storia universale diventa falsa una proposizione che dal punto di vista etico è vera ed è la forza vitale dell’etica: il rapporto di possibilità che ogni individualità esistente ha rispetto a Dio” (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non filosofica, parte seconda, Sezione seconda, Cap. primo, in Opere, ed. Sansoni, Firenze 1972 pag. 341b). E’ questa, alla fine, la conclusione. Dal punto di vista della storia, Ugo de Morville ha ragione ed Abramo ha torto; dal punto di vista etico, ragione e torto si rovesciano.
La falsità della proposizione del cavaliere risulta evidente considerando attentamente la sua argomentazione: essa poggia tutta su ciò che avverrà nel futuro ed è in futuro e dal futuro che egli riceve l’assoluzione. Dunque, quando egli sarà già morto.
Questo modo di argomentare dimentica però la cosa più evidente: che una volta Ugo de Morville è stato vivo. Ma questo deve essere dimenticato, altrimenti tutta l’argomentazione crolla interamente, poiché la considerazione storica – cioè il calcolo dei pro e dei contro fatto in base alla prudente previsione delle conseguenze – comprende tutto partendo dal dopo che l’atto è già stato compiuto: non è l’uomo nell’istante cioè della sua decisione esistenziale, che interessa. Non è l’uomo reale, vivo, ma l’uomo già passato.
Tutto al contrario accade nell’uso che Abramo fa della ragione etica: egli è giustificato per il modo con cui pone se stesso ora e qui di fronte a Dio.
E l’etica è la verità circa il bene dell’uomo – dell’uomo concreto, in carne ed ossa – perché Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi; e la suprema decisione cui è chiamata oggi la libertà dell’uomo è se considerare se stesso solo dal punto di vista del tempo o anche e soprattutto dal punto di vista dell’eternità. L’etica è il respiro dell’eternità nell’uomo.
In fondo, questa riflessione ha cercato di porre in questi termini la domanda circa l’uomo.

http://www.bologna.chiesacattolica.it/arcivescovi/caffarra/2009/2009_09_12.php

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