martedì 17 novembre 2009

Anania: «Eppure c’è abbastanza cibo per sfamare tutto il pianeta» (Cascioli)


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«Eppure c’è abbastanza cibo per sfamare tutto il pianeta»

Anania: preoccupante il calo d’attenzione nei confronti della malnutrizione

Raffaella Cascioli

L’impegno c’è, i finanziamenti no. Al termine della prima giornata del vertice Fao in corso di svolgimento a Roma sono confermati gli impegni della vigilia. Almeno a parole: i 192 paesi dell’organizzazione Onu dichiarano di voler rafforzare gli sforzi per dimezzare il numero degli affamati entro il 2015. I mezzi finanziari per raggiungere in così poco tempo questo obiettivo, già di per sé irrealistico visto che il numero degli affamati oggi ha raggiunto il miliardo, non sono indicati. Mancano cioè all’appello.
Anche se nel testo sono elencate cinque azioni da mettere in campo; cinque principi, per raggiungere gli obiettivi strategici. «Eppure oggi il mondo produce tutto il cibo necessario per sfamare la popolazione mondiale», spiega ad Europa Giovanni Anania, docente di politica economica presso la facoltà di economia dell’Università della Calabria ed eminente economista agrario.

Professore, oggi il papa nel suo intervento alla Fao ha ricordato che la terra è in grado di nutrire sufficientemente tutti i suoi abitanti ma ha condannato le speculazioni sui prodotti agricoli...

Non c’è dubbio. Se equamente distribuita la produzione attuale è in grado di garantire cibo anche ai 900 milioni di essere umani cronicamente malnutriti che tuttavia, in modo sistematico, non riescono ad essere sfamati. Oggi la produzione mondiale è in grado di assicurare 2900 calorie procapite al giorno, quando per una vita sana sono sufficienti 2500 calorie mentre la soglia della malnutrizione è fissata intorno alle 1900 calorie. Allo stato attuale dunque, il problema non è da ricercarsi nella scarsità della produzione alimentare quanto piuttosto nel limite all’accesso agli alimenti da parte delle persone più povere. Non è un problema di produzione ma di povertà tanto più che oggi il cibo è disponibile, dappertutto o quasi, anche localmente. Il problema della fame è soprattutto un problema di povertà.

E per il futuro? Esiste anche un problema di crescita demografica o crede sia a portata di mano il traguardo di una demografia sotto controllo?

In effetti, le maggiori preoccupazioni attengono al futuro. Da un lato, la popolazione mondiale sta continuando a crescere anche se con una velocità minore rispetto al passato e, dall’altro, c’è una forte quanto preoccupante caduta di investimenti nella ricerca agricola che rischia di condizionare la capacità di sviluppo della produzione alimentare futura.

Quanto ha inciso la crisi finanziaria sul minore impegno dei paesi ricchi nel contrasto alla fame nel mondo?

La crisi pesa ma purtroppo, e non è questione di oggi, c’è da un po’ un calo di attenzione da parte dei paesi ricchi nei confronti della lotta alla fame nel mondo. Un esempio al riguardo è offerto dai negoziati commerciali multilaterali della Wto che vanno sotto il nome di Doha Round.
Il negoziato, partito nel 2001, è ormai bloccato da anni, perché non c’è alcuna disponibilità da parte dei paesi industrializzati a fare concessioni rispetto alle richieste dei paesi in via di sviluppo. Anche se occorre distinguere le posizioni in campo.
L’atteggiamento dell’Ue è stato finora più responsabile anche perché la riforma della Pac (politica agricola comune) è andata nella direzione di ridurre le distorsioni in essere a cominciare, ad esempio, dall’eliminazione dei sussidi all’esportazione e dalla riduzione dei sussidi interni.
Finora come Unione europea abbiamo realizzato molte iniziative come, ad esempio, l’eliminazione delle barriere in entrata per tutti i prodotti (ad eccezione delle armi) provenienti dai 49 paesi più poveri del mondo. O l’attivazione di accordi di partenariato con le ex colonie.

Eppure i negoziati multilaterali sono ancora bloccati...

Purtroppo gli Stati Uniti sono stati molto meno disponibili. Anzi, due Farm Bill fa, Washington ha reinserito forti protezioni per gli agricoltori Usa e sostegni alla produzione interna. In sostanza, l’amministrazione Obama non ha cambiato l’agenda su questi temi così come la posizione degli Usa nel negoziato multilaterale è rimasta immutata.

Ritiene che se non si sblocca il Doha Round, le dichiarazioni d’intenti come quelle dell’Aquila a luglio o i cinque principi di Roma rischiano di essere vuote?

Non direi. In realtà l’Ue potrebbe, e in parte lo sta facendo, modificare la propria politica agricola unilateralmente intervenendo così nella direzione dei Pvs. Gli Usa, invece, non c’è dubbio che prima decideranno secondo le loro convenienze interne poi andranno ad un accordo.
Detto questo, però, inserire le risorse finanziarie nella dichiarazione finale della Fao per combattere la fame nel mondo è indipendente dal negoziato della Wto. In realtà l’indisponibilità a mettere risorse finanziarie per battere la fame nel mondo è la conseguenza della scarsa attenzione dei paesi ricchi al tema.

Cosa la preoccupa di più al momento: obiettivi irrealistici, assenza di risorse, impegni fumosi?

Finora gli impegni assunti in passato non sono stati rispettati. Stiamo meglio di trent’anni fa, ma questo non vuol dire molto. C’è una tendenza sistematica a una riduzione consistente degli investimenti in ricerca e sviluppo inerenti l’agricoltura.

In qualche modo è colpa della crisi?

La crisi ha aggravato un trend già esistente e, per il prossimo futuro, i dati non sono assolutamente confortanti.
A fronte di una riduzione percentuale di affamati nel mondo, che nel 1970 rappresentavano un quarto della popolazione mondiale, due anni fa la percentuale era di undici punti mentre per il prossimo anno è atteso un incremento fino al 13%. Non è, dunque, solo un problema di crisi finanziaria ma pesano anche gli effetti perversi del forte aumento dei prezzi dei prodotti agricoli registrato tra il 2007 e il 2008.

Crede che gli ogm possano avere un ruolo importante nella lotta contro la fame nel mondo?

Si tratta di un capitolo difficile, ma certo la partita non può essere liquidata con una chiusura di principio agli organismi geneticamente modificati.
Certo, gli ogm possono aumentare la produttività, possono servire a diminuire l’inquinamento perché richiedono l’impiego di minori fertilizzanti e, al momento, non è dimostrato che costituiscano un rischio per la salute umana. Semmai creano qualche problema alle produzioni tradizionali, non consentono una maggiore biodiversità e la loro diffusione crea anche un problema di distribuzione futura del potere economico. La verità è che occorre avere un atteggiamento attento e aperto in fatto di ogm a cominciare, ad esempio, dal non precludere la strada alla ricerca, come invece è accaduto in Italia.

A proposito della crisi dei prezzi alimentari, oggi c’è stata una marcia su Roma dei trattori degli agricoltori...

Non confonderei le due cose, sono due argomenti diversi. Per quel che riguarda gli agricoltori europei bisogna capire e distinguere chi chiede i sussidi, a chi servono e in che misura. Non è pensabile tornare indietro né assicurare, come chiedono soprattutto gli agricoltori francesi, un aumento dei prezzi con il sostegno di politiche pubbliche. La scorsa settimana ho sottoscritto con altri 22 studiosi di molti paesi europei un documento sulla politica agricola comune per la produzione di beni pubblici europei. Noi sosteniamo che sia venuto il momento di ridisegnare la Pac per rafforzare i suoi effetti positivi. Abbiamo individuato quattro gruppi di potenziali obiettivi per la Pac: migliorare l’efficienza economica e la competitività, garantire la sicurezza alimentare, modificare la distribuzione del reddito, promuovere la produzione di beni pubblici. Tuttavia, solo l’ultimo di questi obiettivi costituisce una base sostenibile per la Pac del futuro.

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