venerdì 14 novembre 2008

All’indomani della sentenza su Eluana Englaro, la riflessione di mons. Fisichella, del prof. D’Agostino e del dottor Sanna (Radio Vaticana)


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All’indomani della sentenza su Eluana Englaro, la riflessione di mons. Fisichella, del prof. D’Agostino e del dottor Sanna

In Italia, acceso dibattito nell’opinione pubblica e nel mondo della politica all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione, il ricorso della Procura generale di Milano sulla vicenda di Eluana Englaro, autorizzando così la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della donna in stato vegetativo da quasi 17 anni. In una nota, la presidenza della Conferenza episcopale italiana, pur partecipando “con delicato rispetto e profonda compassione” alla dolorosa vicenda, richiama “alla loro responsabilità morale quanti si stanno adoperando per porre termine alla sua esistenza”. “La convinzione che l’alimentazione e l’idratazione non costituiscano una forma di accanimento terapeutico - prosegue la nota - è stata più volte, anche di recente, resa manifesta dalla Chiesa e non può che essere riaffermata anche in questo tragico momento”. In tale contesto, concludono i vescovi italiani, “si fa più urgente riflettere sulla convenienza di una legge sulla fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa”. Sulla gravità della sentenza della Cassazione e sulla necessità di difendere la vita contro le derive eutanasiche, si sofferma il presidente della Pontificia Accademia per la Vita e rettore della Lateranense, mons. Rino Fisichella, intervistato da Francesca Sabatinelli:

R. - E’ una decisione questa molto grave, sotto tutti i profili. Per quanto mi concerne, è gravissima dal punto di vista etico e dal punto di vista morale. Forse potranno trovare delle giustificazioni nei cavilli procedurali e nelle interpretazioni del linguaggio. Nella sostanza, però, rimane un fatto del tutto grave, un fatto del tutto estraneo alla cultura del popolo italiano e un fatto di una gravità assoluta per quanto riguarda un attentato alla vita. Ciò cui saremo costretti ad assistere è che, ancora una volta, ad una vita umana, ad una vita personale, ad una ragazza di 37 anni - come fu nel passato per Terry Schiavo, negli Stati Uniti, così oggi in Italia - verrà tolto il nutrimento e verrà tolta l’idratazione, cioè ad una persona viva, non attaccata a nessuna macchina, ad una persona che respira autonomamente, ad una ragazza che si sveglia e si addormenta, ad una ragazza che percepisce anche. Perché questo è ugualmente da ribadire: lei percepisce delle sensazioni. Le verrà tolta l’acqua e le verrà tolto il nutrimento, condannandola certamente ad una morte di grave sofferenza e di stenti.

D. - Eccellenza, secondo lei, con questa sentenza c’è il rischio, così come è stato ipotizzato da alcuni, che si possa introdurre l’eutanasia in Italia?

R. - Io sono ancora più profondamente convinto che il popolo italiano, verificando il dramma che si sta per compiere sotto ai suoi occhi - perché rimango fermamente convinto che la maggioranza degli italiani non condivide questa posizione nel momento in cui è informato di come avvengono veramente le cose e di quale posta in gioco realmente ci sia - credo sarà convinto ancora di più ad arrivare a formulare una legge, mi auguro il più possibile condivisa, proprio perché venga evitato il più possibile qualsiasi esperienza e qualsiasi forma di eutanasia passiva o attiva nel nostro Paese.

D. - Accanto ad Eluana ci sarà - lo ha già detto, come sempre è stato in questo periodo - il papà Beppino, che ha dichiarato subito dopo la sentenza che in Italia si vive in uno Stato di diritto...

R. - Sì, io ho sempre avuto profondo rispetto per la situazione familiare, per il dolore familiare, così come ho rispetto però per più di duemila persone che vivono la stessa condizione e che non giungono alle stesse conclusioni. Mi sembra però che invocare il diritto lasci aperto un grande vuoto che è quello di richiamare anche ad una dimensione della compassione e dell’amore. In uno Stato di diritto le assicuro che c’è un principio fondamentale che dice “Summum ius, summa iniuria”. Io credo che questo parli già da sé. Se gli antichi romani avevano stabilito questo principio, pensi se non sia ancora valido oggi.

Giuridicamente devastante”: così, l’Unione giuristi cattolici italiani (UGCI) definisce “la sentenza della Cassazione che ha posto fine al caso Englaro”. Secondo i giuristi cattolici, infatti, la Cassazione ha introdotto “di fatto nel nostro ordinamento l'eutanasia passiva”, inducendo l'opinione pubblica “a ritenere che una vita malata possa perdere di dignità”. Un atto, questo, che va contro l’ordinamento costituzionale italiano. E' quanto sottolinea il presidente dei giuristi cattolici italiani, il prof. Francesco D’Agostino, intervistato da Luca Collodi:

R. - Nella pronuncia di ieri, la Cassazione ha riconosciuto un diritto di rango costituzionale all’autodeterminazione dei pazienti, anche nei confronti di scelte di fine vita. La Costituzione non parla di un diritto di questo genere: si limita ad affermare che ogni persona ha diritto a rifiutare terapie coercitive. Ma forme di autodeterminazione che si trasformino obiettivamente in pratiche di eutanasia passiva, come quella che aspetta la povera Eluana, sono sconosciute al nostro testo costituzionale. Se la Cassazione avesse adottato un’interpretazione saggia e prudente del nostro ordinamento giuridico, e avesse preso seriamente in conto i principi della deontologia medica, non ci sarebbe stato alcun bisogno di una legge. Ma dato che la Cassazione ha scelto invece una interpretazione indebitamente estensiva, che di fatto introduce l’eutanasia nel nostro ordinamento, a questo punto ritengo che sarebbe sommamente auspicabile che il parlamento intervenisse per ribadire principi tradizionali che oggi, evidentemente, sono andati perduti.

D. - Professore D’Agostino, non pensa che queste sentenze possano aprire anche un fronte culturale su tematiche come quella del rapporto tra etica e giustizia?

R. - Guardi, aprono un fronte culturale estremamente delicato. La vita di Eluana, essendo in stato vegetativo persistente, avrebbe perso dignità. Questa affermazione è gravissima e, a mio avviso, è un vero e proprio insulto nei confronti di tutti quei malati che si trovano nella situazione di Eluana e dei medici e dei parenti che li accudiscono. Bisogna ribadire con forza l’esatto contrario: la dignità umana non solo è inviolabile ma è imperdibile, nessuna situazione può farci pensare che la dignità umana sia venuta meno, meno che mai quando parliamo di malati. Ecco perché, avere giustificato la sospensione delle cure di Eluana, apre una breccia, di tipo culturale ed etico, a mio avviso, devastante. E sulla dignità della persona morente, ecco la testimonianza del dottor Giovanni Maria Sanna, responsabile del Centro "Santa Maria Assunta" di Guspini - vicino Oristano, in Sardegna - che da anni cura malati in stato di coma e affetti da gravi cerebrolesioni. L’intervista è di Alessandro Gisotti: R. - Non ci possiamo fermare ad un aspetto semplicemente esteriore della persona. E’ una persona viva, che mi trasmette comunque un’emozione, e io sono sicuro che ci sia un passaggio, diciamo, di emozione reciproca.

D. - Per chi non ha fede, ovviamente, la questione diventa più complicata. Cosa si sente di dire lei, in base alla sua esperienza?

R. - Io lavoro con gente che non ha fede, con colleghi, con famiglie che non hanno fede. Posso dire semplicemente questo: anche loro combattono la stessa battaglia e, pur con differente sensibilità, vivono la stessa esperienza. Quello che mi colpisce, soprattutto nella mia esperienza ultradecennale, è che mai ho avuto richieste di interrompere una terapia, per non parlare poi della somministrazione di cibo, perché tutto ruota sempre intorno alla situazione della persona: se lasciata sola, sono sicuro che la disperazione può portarla a richieste eccessive; se invece la società la accompagna fino alla fine, non sente il bisogno di chiedere l’interruzione della vita. Questa è la mia esperienza.

D. - La solitudine del malato e di chi gli è vicino: il problema è proprio questo?

R. - Sì, il problema è proprio questo. Noi non stiamo parlando soltanto del malato, noi stiamo parlando della persona sofferente. E nella mia esperienza, la persona sofferente fa vedere un aspetto trinitario della persona che vive in società, che è l’ammalato, la famiglia stessa e gli amici. Questi soffrono e, se non sono lasciati soli, trovano in loro la forza di portare avanti la croce che gli si è presentata, la sofferenza.

D. - La vicenda di Eluana Englaro, ovviamente oggi sulle prime pagine di tutti i giornali, è innanzitutto una storia di dolore: di Eluana, del padre... Che cosa pensa di fronte ad una realtà come questa?

R. - Alla società dico di stare molto attenta a quello che introduce dentro se stessa, perché può farsi molto male, prendendo decisioni che non spettano neanche alla legge. Per quanto riguarda il padre - quando mi capita personalmente di stare vicino a queste persone sofferenti, non posso assolutamente dir niente - lo inviterei comunque ad interrogarsi proprio in virtù di questa esperienza e a cercare la verità. E’ importante che quest’uomo che ha sofferto tanti anni venga aiutato a trovare la verità.

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