venerdì 14 novembre 2008

Massimo Franco: Santa Sede e Stati Uniti all'indomani del voto (Osservatore Romano)


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Santa Sede e Stati Uniti all'indomani del voto

Anticipiamo un articolo che esce il 14 novembre sul bimestrale di geopolitica "Limes". È stato scritto alla vigilia delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti da Massimo Franco, notista politico del "Corriere della Sera" e autore di Parallel Empires (Doubleday Random House), un saggio sulla storia dei rapporti tra Santa Sede e Stati Uniti che sarà pubblicato il prossimo 19 gennaio.

di Massimo Franco

Le analisi arrivate negli ultimi mesi in Vaticano dagli Stati Uniti sono state piuttosto unanimi. Convergono nel descrivere una nazione orfana di leadership. E destinata a restare parzialmente tale anche dopo le elezioni presidenziali. Per motivi diversi, sia Barack Obama che John McCain sono considerati nella cerchia di Benedetto XVI figure incapaci di soddisfare del tutto le speranze di rinascita degli Stati Uniti; e di restituire fiducia a una popolazione che riemerge sfibrata, frustrata e impoverita dagli otto anni di George W. Bush alla Casa Bianca.
Su Obama pesa, nel giudizio della Santa Sede, l'incognita rappresentata dalla sua mancanza di esperienza internazionale, dalla sua infanzia in Indonesia, in un ambiente islamico, e dall'educazione familiare. Ma per paradosso, più ancora del suo profilo personale sfuggente, che le gerarchie cattoliche tendono a osservare come un punto interrogativo, le perplessità nascono dalla sua appartenenza al Partito democratico. Nel lessico cattolico statunitense, il termine liberal è una sorta di parolaccia culturale, assimilabile a quella di "socialista europeo" o di "relativista morale" in Europa.
La scelta del cattolico Joseph Biden come candidato alla vicepresidenza non è bastata a fugare i sospetti. James Nicholson, ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede nella prima amministrazione Bush, poi Secretary of Veteran Affairs nella seconda, ha dato voce alla polemica dei repubblicani contro Obama e Biden definendoli "due dei liberal più estremisti del Congresso".
Poche settimane prima del voto, 50 dei 197 vescovi Usa in attività hanno anche voluto sottolineare che la scelta del presidente si giocava sui "valori morali"; che la vera bussola per votare l'uno o l'altro candidato doveva essere l'atteggiamento in materia di aborto: un modo per favorire di fatto il fronte repubblicano (cfr. Rocco Palmo, Fifty Bishops Say Us Election Is about Abortion, "The Tablet", 25 ottobre 2008).
Ma l'appartenenza di McCain al partito di Bush, seppure come battitore libero e spesso in contrasto con l'apparato, lo ha comunque danneggiato. L'ombra di Bush ha sovrastato la candidatura repubblicana, nonostante le persistenti diffidenze nei confronti di Obama.
Anche per questo, stavolta "l'elettorato cattolico" e bianco in quanto tale ha perso la sua connotazione di minoranza forte e compatta, orientata verso i repubblicani per l'opposizione ai matrimoni omosessuali e il favore per la pena di morte. E ha riflesso la spaccatura del paese. Nel 2008 "non sono stati i repubblicani a lavorare duro per guadagnarsi il voto cattolico, ma i democratici", ha scritto "America", l'influente rivista dei gesuiti Usa (cfr. Mark Silk - Andrew Walsh, A Past Without a Future?, "America", 3 novembre 2008). Già nel 2004 l'elettorato cattolico non era apparso più un monolito, dividendosi fra Bush e il democratico John Kerry. Ma in un'inchiesta condotta da Faith in Public Life a settembre si vedeva che i cattolici sotto i 35 anni erano in gran parte per Obama: il 55 per cento contro il 40 per cento per McCain.
Non c'è soltanto "il lavoro duro" dei democratici per modificare la propria immagine di partito filoabortista e favorevole ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. C'è anche la crisi economica, che ha oscurato altri temi rimasti in primo piano nelle ultime due campagne presidenziali vinte da Bush: valori etici, guerra, minaccia del terrorismo islamico contro gli Usa. Il versante domestico conta, agli occhi del Vaticano, sia per la politica che il nuovo presidente farà quando si tratterà di orientare le scelte della Corte Suprema su temi come aborto, eutanasia, ricerca sulle cellule staminali; sia per i suoi riflessi internazionali. Sul primo punto, difficilmente il Papa avrà un alleato come è stato Bush.
La presidenza "religiosa", se non quasi "teologica", che ha guidato Bush in scelte a dir poco controverse, se non disastrose, come la guerra in Iraq, si è accompagnata a una difesa strenua dei "valori" cari alla Santa Sede. Per questo, alla fine il giudizio severo della Roma pontificia di Giovanni Paolo ii è risultato non secondario, ma bilanciato vistosamente da quello positivo per l'"alleanza sui valori". Raramente era accaduto che i due "imperi paralleli", Vaticano e Usa, risultassero così vicini come negli ultimi quattro anni. Bisogna risalire alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, con Ronald Reagan alla Casa Bianca e Giovanni Paolo ii in Vaticano a combattere contro il comunismo morente.
Le visite di Bush a Roma e quella di Benedetto XVI a Washington e New York nell'aprile scorso hanno sottolineato una sintonia se non inedita, certamente insistita fra Stati Uniti e Santa Sede. Il Papa, ha ricordato poche settimane dopo il viaggio il nunzio a Washington, Pietro Sambi, ha parlato degli Usa come di un "paese laico per amore della religione". E il pontefice è riuscito ad attenuare, se non a cancellare, l'impatto negativo provocato dallo scandalo dei preti pedofili. Insomma, la normalizzazione dei rapporti è stata ufficializzata, chiudendo una fase lunga oltre due secoli; ma in parallelo lasciando capire che il futuro dei rapporti fra Santa Sede e Casa Bianca andrà verificato e rimodulato nel dopo-Bush.
Anche perché a livello internazionale la situazione è meno idilliaca. Per il Vaticano, gli Stati Uniti sono un interlocutore obbligato. Soprattutto nel mondo arabo e più in generale musulmano, l'esigenza di trovare l'appoggio militare americano per proteggere le minoranze cristiane è un fatto. Ma sia in Iraq sia nel Vicino Oriente della questione israelo-palestinese, il bilancio viene considerato deludente, se non preoccupante. Gli organi di stampa cattolici sottolineano "il dovere morale" che gli Usa avrebbero di aiutare i profughi e quanti cercano asilo politico. E in filigrana si intravede l'accusa larvata di avere provocato con la guerra un'accelerazione dell'esodo e un'intensificazione delle persecuzioni contro i cristiani da parte dei fondamentalisti, ma non solo.
"È un'emorragia che sta lentamente dissanguando il popolo della pace nella terra della pace", ha spiegato allarmato Gregorio iii Laham, siriano, Patriarca greco-melkita cattolico di Antiochia. In Palestina, Giordania, Siria, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, per "l'inasprirsi dei conflitti questa presenza è minacciata fortemente dal fenomeno dell'emigrazione. Se Paesi come quelli europei, come gli Stati Uniti mirano effettivamente alla pace, se veramente vogliono mettere la parola fine al terrorismo e mantenere vivo il rapporto con il mondo islamico, devono preoccuparsi di tenere viva la presenza e la testimonianza della comunità cristiana in queste terre" (cfr. intervista di Mario Ponzi, "È urgente frenare l'esodo dei cristiani dal Vicino Oriente", "L'Osservatore Romano", 24 ottobre 2008).
Riaffiora la richiesta di protezione e di lungimiranza strategica innanzi tutto agli Stati Uniti. Barack Obama avrà comunque di fronte il dopoguerra iracheno. E la Santa Sede cerca di condizionarlo in modo tale da ridurre i rischi di estinzione della propria minoranza, che l'amministrazione repubblicana non ha arginato ma anzi accentuato. Quando personaggi come l'arcivescovo latino di Baghdad, Jean Benjamin Sleiman, avvertono che "programmi di ripopolamento nella piana di Ninive o altrove sono un miraggio irrealizzabile, un progetto pericoloso che metterebbe a rischio il futuro della Chiesa irachena", parlano agli americani.
Contestano il progetto di creare un'enclave cristiana, protetta ma isolata, e in prospettiva assediata, nel Nord dell'Iraq (cfr. intervista di Luca Geronico, "Avvenire", 4 settembre 1008). È difficile capire se la convergenza degli ultimi quattro anni dei due "imperi paralleli" dell'Occidente continuerà; e con quale incidenza sugli equilibri mondiali. La sensazione è che l'indebolimento dell'America di Bush abbia quasi di rimbalzo reso più difficile il ruolo ecumenico della Santa Sede. Gli interventi militari degli Usa hanno proiettato un'ombra su chiunque sia cristiano nel Grande Medio Oriente che va dal Marocco all'Indonesia. E hanno messo a rischio l'attività delle Chiese e la loro possibilità non solo di fare proseliti, ma di svolgere la funzione educativa e "politica" che la storia aveva loro assegnato: quella di cerniera e di raccordo fra fedi e culture diverse. Quella rete di moderazione e tolleranza reciproca si è strappata. E un'America stravolta dalla sua recessione finanziaria potrebbe essere tentata dalla prospettiva di una ritirata non solo geopolitica, ma georeligiosa: una scelta che risulterebbe, oltre che illusoria, devastante.

(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2008)

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