domenica 28 giugno 2009

Riflessioni di un politico sull’elogio della coscienza di Benedetto XVI (Quagliariello)


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Riflessioni di un politico sull’elogio della coscienza di Benedetto XVI

di Gaetano Quagliariello

Genova, 19 giugno 2009,

Abbiamo oggi il privilegio di discutere su una raccolta di preziosi testi del cardinale professor Joseph Ratzinger che non solo assumono una rilevanza particolare a fronte delle temperie che hanno attraversato il dibattito pubblico negli ultimi tempi, ma che si vedono conferire ulteriore pregnanza da una pubblicazione che interviene nel momento in cui il loro autore è divenuto Papa Benedetto XVI, attualizzandone evidentemente il valore in termini di Magistero.
Mi sia consentito, dunque, di parlare d'ora in poi di scritti del Papa nel riferirmi a questi testi che, dapprima da un'ottica rivolta alla società e al suo spazio pubblico, e poi da una prospettiva più intimamente connessa alla dimensione religiosa ed ecclesiastica, ripercorrono un tema già caro a Giovanni Paolo II - quello del rapporto fra relativismo e democrazia - al quale Benedetto XVI aggiunge un terzo elemento: la libertà.
Papa Ratzinger ci offre un percorso che muove anche dalla riflessione personale e soggettiva attorno a un interrogativo: se la coscienza, già "grande inquisitore", possa essere considerata un "grande assolutore" attraverso il quale ogni comportamento può essere giustificato ponendo come unica condizione che esso risponda ai propri dettami interiori e che tali dettami siano considerati dal soggetto corretti; oppure se essa - la coscienza - debba far riferimento a una verità previa, a principi preesistenti, che per alcuni possono risiedere in una dimensione trascendente, e per altri, non necessariamente credenti, possono far riferimento anche solo a quei postulati immutabili del diritto naturale che si enuclearono già nel mondo greco e in quello romano pre-cristiano, e che il cristianesimo ha in seguito rafforzato e divulgato.
C'è poi una lettura di questo volume che può essere compiuta da un'angolatura particolare: quella dell'uomo politico chiamato a confrontarsi con le sfide del nuovo secolo, in campo antropologico e non solo. Anche da questo punto di vista gli scritti di Papa Benedetto XVI offrono numerosi spunti. A cominciare dalla concezione di democrazia e dal rapporto che essa ha con la verità e con i principi previi di cui dicevo poc'anzi.
La democrazia ha bisogno di un fondamento di verità, non ne può fare a meno. Se ne fa a meno, riducendosi a mera procedura in un orizzonte che riconduce tutto alla soggettività, finisce inevitabilmente per negare se stessa. Se infatti tutto è soggettivo e anche per questo non vi sono limiti ai deliberati, la maggioranza allora può tutto, anche abrogare i diritti fondamentali e inalienabili della persona e quelli delle formazioni sociali naturali e storiche, e finanche la democrazia stessa. Allo stesso modo, se tutto dipende dalla libertà del singolo individuo, non si comprende la ragione per la quale la minoranza dovrebbe rispettare la legge approvata dalla maggioranza.
A tale obiezione, rispolverando Kelsen, i relativisti contemporanei rispondono: “per convenzione; per la importanza che assume la procedura proprio a partire dalla constatazione del significato relativo che ogni verità ha”.
Guardando alla dinamica politica corrente, si può affermare senza tema di smentita: si tratta di una risposta ipocrita. Per quanti sforzi si facciano per intronizzare la “regola”; per quanto si cerchi di rafforzarla costruendovi intorno delle formule (si vedano a proposito le diverse teorizzazioni sul patriottismo costituzionale), sempre di procedura si tratta. E non è un caso che proprio coloro che vorrebbero, in teoria, concedere alla regola della maggioranza la forza della verità, sono poi quelli che nella pratica cercano di sfuggire al suo significato effettivo che, invece, per noi risulta importantissimo anche se non assoluto: quello di riflettere la sovranità del popolo. Si valuti, al proposito, la tendenza a valorizzare le direttive comunitarie, espressione di una burocrazia che si vorrebbe sovra-ordinata anche alla libera espressione dei Parlamenti nazionali. Si osservi il ricorso sempre più frequente ai tribunali da parte di quanti, ideologi di una libertà intesa come arbitrio individuale e slegata dal concetto di responsabilità, quando non trovano soddisfazione nell'ambito delle istituzioni rappresentative alla loro pretesa di trasferire ogni presunta libertà nel diritto positivo, agiscono per via giudiziaria provando così ad aggirare il processo della decisione democratica. In tal modo, in molti casi, finiscono per mettere in discussione i diritti inalienabili della persona e in particolare dei più deboli.
Sempre in questa stessa ottica rientra la tendenza ad accrescere la sfera dell’intervento delle Corti Costituzionali. E, infine, si possono considerare le ultime elaborazioni in tema di diritto parlamentare, tutte tese a “relativizzare” la stessa regola di maggioranza mettendo la sovranità popolare sempre più spesso in concorrenza con altre fonti decisionali che sono estranee al circuito della democrazia rappresentativa e dunque traggono legittimazione non dalla sovranità del popolo ma di volta in volta da diritti sovraordinati, da presunte nobiltà d'intenti, da esigenze superiori derivanti da contesti extra-statali.
E’ indicativo, insomma, che coloro i quali per destrutturare la verità si rifugiano nella regola della maggioranza, nel momento nel quale la maggioranza non dà loro ragione, regrediscono ulteriormente approdando, senza rendersene conto, assai prossimi alla nozione di citoyenne capacitaire di guizottiana memoria. Laddove, ovviamente, i requisiti della capacità che definisce il vero cittadino non vengono definiti, come al tempo di Guizot, sulla base di criteri oggettivi (il livello d’istruzione) ma sulla base del politicamente corretto raffinato dai circoli intellettuali egemoni.
Ma, pur prescindendo dalla constatazione del contingente e soffermandoci sulla sola teoria, la soluzione dei relativisti tendente a sganciare la regola democratica da ogni suo contenuto positivo, non è meno pericolosa. Giovanni Paolo II ci ha ammonito come il connubio tra relativismo e democrazia possa portare ad approvare a maggioranza veri e propri crimini (soprattutto nel campo dell’antropologia), in grado di scardinare non soltanto la tradizione ma anche la morale che è insostituibile cemento di una comunità umana. E la storia, d’altro canto, ci ha insegnato come la “regola” della maggioranza abbia legittimato i più efferati regimi tirannici. Benedetto XVI a tal proposito, con finezza storiografica non comune, nota come non a caso i nemici della democrazia abbiano sempre cercato d’instaurare stati di confusione tendenti all’anarchia, dai quali far emergere la loro soluzione appoggiata e desiderata dai più. Si potrebbe notare, in questa stessa scia, come il nazismo raggiunse il potere per via democratica e il fascismo si affermò grazie a una legge elettorale (la legge Acerbo) approvata da un libero Parlamento e, per un lungo periodo, godette del consenso della larga maggioranza degli italiani. Proprio la convinzione che vi sia un nesso tra verità e democrazia ci consente di affermare che quell’origine e quel consenso non bastano a mondare quei regimi dai loro crimini. Cosa che, con ogni evidenza, è invece più difficile da sostenere per quanti hanno degradato la democrazia a mera procedura e alla regola della maggioranza.
Una volta stabilita, sulla scorta delle argomentazioni di Benedetto XVI, la relazione tra democrazia e verità, per il politico che riflette su questo libro subentra un ulteriore problema da risolvere. La verità che entra in questione nel gioco democratico, infatti, deve essere forte, dovrebbe essere naturalmente una verità a priori, ma non può pretendere di oltrepassare ogni idea di concorrenzialità. In altri termini, non può concepirsi come assoluta. Per evitare la padella del relativismo, insomma, non possiamo accettare di farci arrostire sulla brace di quanti negano la pluralità delle possibili declinazioni attraverso le quali essa può concretizzarsi nella vita di una determinata società, ad esempio attraverso l'opera di mediazione del legislatore chiamato a trascrivere sul piano del diritto positivo i principi del diritto naturale.
Il pericolo di questa deriva lo si percepisce a pieno se si pensa alla parabola del giacobinismo. Non si può certo accusare i giacobini di non avere una loro idea della verità. Non si può neppure affermare che essa non abbia ascendenze, quantomeno nominalmente, nella tradizione giudaico-cristiana. Ma, d’altro canto, è indubbio che quell’ideale di libertà abbia condotto, prima, a compiere in suo nome atroci delitti e poi, come ci ha spiegato Talmon, a porre gli incunaboli per i regimi che l’hanno apertamente negata, contrapponendo alla sovranità popolare una presunta "volontà generale" intesa come verità assoluta, rispetto alla quale non c'è margine per l'errore né per il dissenso. Quest’esempio ci porta ad affermare che la democrazia deve essere corroborata da un’ideale di verità che si collochi in un punto del continuum che vede, da un canto, la sua negazione in nome di un soggettivismo relativistico e dall’altro la sua assolutizzazione in nome di un bene superiore della umanità, evitando però come la peste di addossarsi troppo sia all’uno sia all’altro estremo del continuum.
Entra in questione, a questo punto, il rapporto tra cielo e terra sul quale per primo Erasmo concepì un’ideale di libertà cristiano. E su questo rapporto, non a caso, anche Benedetto XVI si sofferma in questo libro a proposito della democrazia (pp. 74-76). Riflettere sul fatto che, anche tra i liberali, in particolare ma non soltanto fuori dal Vecchio Continente, ci sia stato chi ha collocato la propria idea di libertà in uno spazio segnato da quella separazione di sfere, potrebbe portare il Papa a considerare una circostanza che, stando alla lettura di questo libro, sembra sfuggirgli: che nella grande famiglia del liberalismo vi è anche chi ha concepito quell’ideale alla luce della tradizione, del comunitarismo e dell’empiria, che la distinzione tra cielo e terra comporta come logiche conseguenze.
Solo collocando la verità in una dimensione trascendente, essa resta un’ideale che, da un canto, ispira l’azione degli uomini e la loro coscienza evitando di sottometterla al relativismo soggettivistico; dall’altro evita di proporsi come ideale assoluto che, per la sua pregnanza, autorizzi l’annientamento di ogni altro ideale concorrente. Questa sistemazione dei termini, per di più, consente un’ordinata distinzione tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. Non casualmente in questo caso utilizzo il termine “distinzione” e non quello “separazione”. Infatti, se la città di Dio e quella dell’uomo sono diverse, per quanto non separate, si annulla alla radice ogni ipotetica pretesa di farle coincidere. D’altro canto, però, la correlazione non autorizza le Chiese a disinteressarsi della sorte dell’uomo su questa terra e, per questo, ad astrarsi dal dare il loro contributo nello spazio pubblico, in termini di opere e in termini d’idee.
Il rapporto tra cielo e terra è indispensabile anche per risolvere due ulteriori problemi della moderna vita politica, che le riflessioni di Benedetto XVI investono, direttamente o indirettamente.
La prima concerne l’ideale di uomo politico in un tempo nel quale, come preconizzato da Max Weber, la dimensione mass-mediologica della vita sociale ha portato il carisma personale ad essere un attributo imprescindibile del politico di successo. Benedetto XVI chiarisce bene qual è il rapporto che vi è tra il carisma di chi, come il Papa, fonda la propria autorità su una verità rivelata, e l'autorità dell’uomo politico, il quale non ha questo vincolo esterno, ma che non per questo può sentirsi soluto da ogni rapporto con la verità.
Il carisma del Papa non è capriccio autoritario; si fonda sull’anamnesi infusa nel nostro essere e si propone come aiuto all’uomo affinché ne divenga cosciente.
Il carisma del leader, invece, sconta una situazione d’incoscienza più profonda, senza agganci con stati interiori innati. Non casualmente Max Weber, nell’avanzare l’esempio del leader carismatico democratico recupera la storia del rapporto tra Mosè e il suo popolo: questo lo segue senza sapere dove sarà condotto, per quanto la forza carismatica faccia intendere che sarà verso una meta di salvezza. In termini più prosaici il politologo americano Joseph Nye junior ha di recente evidenziato che detenere la leadership è come detenere una licenza di pesca: la circostanza non garantisce che si porti a casa il pesce. Ma – si potrebbe aggiungere – se ciò non accade; se l’opera del leader carismatico non va nella direzione della salvezza; se la licenza, insomma, resta fine a se stessa o finisce di produrre benefici, il carisma cessa d’agire e la licenza viene ritirata.
A ben vedere, ciò che si ricava di positivo nello stabilire un rapporto tra un assoluto e il riferimento secolare a quell’assoluto, è fondamentale per dirimere un ultimo nodo dell’attuale lotta politica. Anche in questo libro il Papa mette in guardia sul rischio di dissolvere il cristianesimo nel moralismo (pp. 30-31). Con ben più forza lo ha fatto nel ricordo di don Giussani il giorno dei suoi funerali. Il problema ha una sua immediata corrispondenza nella sfera politica. Qui, infatti, sempre più spesso si ritiene che lo sconfiggere storture e deviazioni proprie di questa specifica arena del vivere civile, possa essere ragione sufficiente e fondante dell’impegno politico. Ne deriva che le battaglie per la moralità pubblica, con il trascorrere del tempo, possono tradursi in moralismi dietro i quali, spesso e volentieri, si nascondono le imperfezioni e a volte persino le perversioni dei censori.
Per chi sconta nel proprio agire politico la differenza tra cielo e terra, questo scadimento è quanto meno più difficile. Egli, infatti, conosce l’imperfezione che regna su questa terra. Non concede nulla all’immoralità ma, d’altra parte, sa che il perseguimento del bene comune è percorso più tortuoso e difficile. Deve fare i conti con la debolezza degli uomini e, anche per questo, oltrepassa il moralismo mettendo in conto la disponibilità a metter le mani anche laddove regna il torbido, mai smarrendo l’obiettivo di tirarle fuori nette. Insomma, l'uomo politico agisce in un’arena civile, lontano dal sacro e senza fini di salvezza. Ma nel rapporto con gli uomini e con la verità la modalità del suo agire è una traduzione laica di ciò che il sacerdote persegue in un altro ambito. A questo punto, e infine, è più facile comprendere perché questo libro del Papa aiuti i politici a capire i motivi per i quali è bene che la libertà, e ancor più la democrazia, siano cristiane. Non certo in senso partitico, ma per quanto concerne il loro orizzonte tradizionale e comunitario. Quella linea d’orizzonte è bene non smarrirla, per chi crede ma persino per chi non crede. Perché, con Erasmo, collocando la verità al di fuori di questo mondo, essa resta un riferimento esterno che si riflette, però, sulle contese di questa terra senza correre il rischio di assolutizzarle. Si determina così una situazione di equilibrio nella quale la democrazia sposa la libertà, senza rischiare mai di separarsi da essa ma anche senza ucciderla, non peccando né di eccessivo lassismo e tanto meno di eccessivo amore.

© Copyright L'Occidentale, 28 giugno 2009

1 commento:

massimo ha detto...

GRANDE E BELL'ARTICOLO.