venerdì 2 ottobre 2009

Caritas in veritate»: prima del profitto e della produzione viene il dono (che è gratuito)


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L'uomo rivelato all'uomo

Il 29 settembre si è svolto a Roma, al Forum delle Associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro, il convegno "Persona, lavoro e sviluppo", sull'enciclica "Caritas in veritate". Pubblichiamo un ampio estratto della relazione dell'arcivescovo-vescovo di Trieste, presidente dell'Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan sulla dottrina sociale della Chiesa.

di Giampaolo Crepaldi

La Caritas in veritate, presenta molti elementi di novità che possono frastornare anche il lettore esperto di dottrina sociale della Chiesa se costui si attiene troppo rigidamente ai temi "classici" - mi si passi l'espressione - del magistero sociale pontificio. La Caritas in veritate va collocata dentro la tradizione come essa espressamente dice, ma sarebbe un peccato se questo comportasse una opacità nel vedere le sue formidabili novità di impostazione. Vorrei farvi qualche esempio in proposito. Da una enciclica sociale sullo sviluppo che si rifà espressamente alla Populorum progressio, ci si potrebbero attendere analisi e riflessioni sui dazi, sulle dinamiche del commercio internazionale, sulle materie prime o sui prezzi dei prodotti agricoli, sulle percentuali di Pil da dirottare negli aiuti allo sviluppo e così via. Si incontra invece un'enciclica che, pur non trascurando questi e altri temi, anche molto concreti, si sofferma a parlare dell'influenza che sullo sviluppo hanno il rispetto della libertà religiosa, la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, l'assolutismo della tecnica, l'atrofizzazione della coscienza. Molti passi riflettono sui nessi profondi tra lo sviluppo e la prospettiva della vita eterna o la consistenza ontologica dell'anima, come per esempio il numero 76. Molti lettori sono rimasti sconcertati da questo tipo di approccio e qualcuno ha affermato che l'enciclica tocca i problemi specifici dello sviluppo senza approfondirli. Rischia così di venire perduta o almeno ridotta la percezione della novità di prospettiva dell'enciclica.
La mia idea è che la grandezza di questa enciclica consista nel chiederci una conversione nel considerare le cose e il loro ordine. Siamo abituati a collocare i temi secondo un ordinamento che non corrisponde alla realtà e che non può essere vocazione ad alcun vero sviluppo.
Per esempio, oggi un politico e un amministratore non sanno bene valutare l'importanza delle religioni per lo sviluppo del proprio o degli altri Paesi e non sanno più discernere tra una religione e un'altra in ordine alla loro capacità di produrre sviluppo. Non si è in grado di valutare le conseguenze in termini di sottosviluppo di religioni non amiche della persona o dell'irreligiosità indifferente e cinica, indotta da un laicismo radicale, presente in tanti Paesi del mondo sviluppato. Ma è proprio vero che tutto ciò non ha nulla a che fare con lo sviluppo? Siamo veramente sicuri che la concorrenza internazionale di un sistema-Paese non sia anche dovuta alla tenuta del "sistema morale di riferimento" (45)? Che sia solo problema di infrastrutture o di cambio con il dollaro?
In economia siamo spesso ancora fermi a pensare che bisogna prima produrre la ricchezza per poi distribuirla. Una scissione tra economia e società dalle conseguenze tragiche. La pretesa di un'economia a-sociale e di una società a-economica che è fonte di innumerevoli sprechi e disfunzioni. Uno schematismo deleterio che aggiunge l'uomo-solidale dopo l'homo oeconomicus e non ci permette di vedere quanto, nel lavoro stesso, ci sia di gratuito e di volontario: il lavoro ben fatto e curato, il lavoro creativo, il lavoro artigianale che produce cose belle, il lavoro fatto con passione e dedizione personale a cui educare i giovani, il lavoro fatto con sacrificio, il lavoro vero dell'economia reale, il lavoro onesto e coraggioso, le capacità relazionali di lavorare insieme non solo come lavoratori ma come persone, il lavoro volontario che è presente in tutti i lavori, il lavoro solidale diretto ad altre persone.
Pretendiamo la giustizia, ma non coltiviamo la carità, senza la quale non c'è nemmeno giustizia; ci preoccupiamo perché d'estate vengono abbandonati i cani e non ci curiamo delle vite impedite con l'aborto; pretendiamo di sviluppare solidarietà nel lavoro, ma distruggiamo la famiglia che è vera scuola di solidarietà e la contrapponiamo al lavoro anziché integrarla con esso; ci affidiamo alla tecnica per risolvere i problemi ambientali quando sappiamo che sono dovuti proprio all'assolutismo della tecnica; gonfiamo costosi apparati per gli aiuti internazionali e il 90 per cento del loro budget è impiegato per le spese correnti di mantenimento della struttura; vogliamo educare i giovani all'assunzione di responsabilità e mettiamo in mano delle ragazzine di 16 anni la pillola abortiva; cadiamo ancora di frequente nella trappola del Nord cattivo e del Sud buono; diffondiamo nelle scuole la cultura del determinismo evolutivo per il quale saremmo tutti figli della necessità e del caso e poi pretendiamo che i giovani vedano nella natura una vocazione da rispettare; parliamo di integrazione tra le culture poi, però, non sappiamo fare un passo oltre il già fallito multiculturalismo; critichiamo la tecnica ma poi possediamo un telefonino e mezzo ad abitante; riteniamo che la lotta all'aids si faccia con i preservativi, consideriamo la prostituzione un fatto di ordine pubblico da disciplinare in modo adeguato magari in quartieri appositi. A ogni problema interiore ricorriamo all'esperto quando un tempo bastava il confessore. C'è qualcosa che non va. C'è molto che non va. C'è un ordine delle cose da rimettere a posto, una conversione di prospettiva da attuare. L'enciclica è un invito all'uomo affinché "rientri in se stesso" (68).
Si tratta di grossolani errori relativi alla verità, ma ogni errore relativo alla verità rende difficile anche l'esercizio della carità, perché non si può fare il bene dell'altro senza sapere quale sia il suo bene, proprio perché non sappiamo più che cosa è il bene.
Ora chiediamoci che cosa significhi per noi partire dalla verità e dalla carità. Questa è la proposta fondamentale dell'enciclica, ma cosa significa? Secondo me significa comprendere che niente è solo quanto è. E se si considerano le cose solo in quanto dati non si raggiungono risultati di sviluppo in nessun campo. Ogni cosa rivela un senso. Ogni cosa deve essere illuminata dalla carità e dalla verità affinché riusciamo a comprendere che cosa essa sia e che cosa dobbiamo fare. Il motivo è semplice e profondo nello stesso tempo: il senso non è mai prodotto; è sempre trovato. Ricordiamo un passaggio delle ultime pagine dell'enciclica: "In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende" (77). Il senso è sempre dono e gratuità. La verità e la carità sono la sintesi di tutte le forme di dono e di gratuità che possiamo esperire, tutte riconducibili, alla fine, alla verità e alla carità.
Come ho scritto nella mia Introduzione alla Caritas in veritate pubblicata dall'editore Cantagalli (Siena, 2009) il cambiamento mentale che essa propone è di non considerare più le persone e il mondo come nostra produzione, ma di vederli nell'ottica della loro vocazione. "Se i beni sono solo beni, se l'economia è solo economia, se stare insieme significa solo essere vicini, se il lavoro è solo produzione e il progresso solo crescita ... se niente "chiama" tutto ciò a "essere di più" e se tutto ciò non chiama noi a "essere di più", le relazioni sociali implodono su se stesse. Se tutto è dovuto al caso o alla necessità, l'uomo rimane sordo; niente nella sua vita gli parla o gli si rivela. Ma allora anche la società sarà solo una somma di individui, non una vera comunità. I motivi per stare vicini possono essere prodotti da noi, ma i motivi per essere fratelli non possono essere prodotti da noi".
Si comprende così anche la radicalità della Caritas in veritate, ossia la sua volontà di mettere in evidenza i temi ultimi e cruciali dello sviluppo. Se la chiave dello sviluppo è aprirsi alla considerazione di un senso non da noi prodotto; se la deriva nichilistica dello sviluppo è inevitabile se continuiamo a pensare che il senso lo produciamo noi, allora comprendiamo perché temi come quello della bioetica o della tecnica, ma soprattutto quello della religione e di Dio, divengano di primo piano per lo sviluppo. Prima dei problemi dei dazi e delle tariffe. Prima del cambio con il dollaro.
La Caritas in veritate ha una grande intuizione: le ideologie sono state sostituite dall'assolutismo della tecnica e questo produce un totale "disincanto". Il termine è weberiano e significa la perdita definitiva di un senso non prodotto. La definitiva maturità dell'uomo che non crede più nelle favole. La tecnica si occupa della vita, della procreazione, della famiglia, della pace, dello sviluppo, delle relazioni internazionali, degli aiuti allo sviluppo, del lavoro. Gli apparati tecnici contano più di quelli politici. Ci sono scienziati che scientificamente affermano che Dio non esiste; ci sono medici che scientificamente dicono che l'embrione non è cosa umana; ci sono apparati delle Nazioni Unite che impongono in tutto il mondo l'ideologia del gender; ci sono agenzie che pianificano la lotta alla vita; e dopo la crisi economica e le tante proposte di moralizzare la tecnica finanziaria nulla o poco di tutto ciò si vede all'orizzonte. La tecnica ormai si occupa di molte cose. Se ne occupa, ma senza sapere che cosa sono; indifferente alla loro verità e quindi incapace di suscitare alcuna carità.
Che cosa c'entra la religione cristiana con lo sviluppo di ogni singolo uomo e di tutti gli uomini? Se ogni cosa è solo quello che è non c'è bisogno del cristianesimo e Dio stesso diventa superfluo. L'economia è economia, il profitto è profitto, la finanza è finanza, il lavoro è lavoro. Dio è una scelta individuale e privata. Ininfluente sulla vita della società. Ma se niente è solo quello che è, se il senso non è mai prodotto, ma ci interpella dall'essere delle cose, se all'inizio c'è sempre il dono e la gratuità perché non lo abbiamo prodotto noi, allora Dio prende il proprio posto nella storia e nello sviluppo. Dio garantisce che l'origine del senso è trascendente e getta così una luce sullo sviluppo che ci fa capire che cosa esso sia veramente. Ci invita a considerare la verità dello sviluppo, affinché così facendo rispettiamo la razionalità economica, la quale pure partecipa della verità, e nello stesso tempo amiamo veramente (e c'è altro modo di amare se non amare veramente? Non solo "veramente amare", ma anche "amare veramente").
Non tuttavia un Dio qualunque, ma un Dio amico della persona, ossia un Dio che è Verità e Amore. Torna alla fine la pretesa cristiana, che essendo una pretesa di verità e di amore non è una pretesa arrogante, ma di dono e gratuità. La pretesa che il Papa annuncia in quanto Papa, ma che anche la realtà umana annuncia almeno come attesa. Si tratta della pretesa che "il Vangelo è elemento fondamentale per lo sviluppo, perché in esso Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (18).

(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2009)

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