domenica 15 novembre 2009

Vocazione e risposta come temi dell'arte cristiana: La bellezza del «chiamato» (Timothy Verdon)


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Vocazione e risposta come temi dell'arte cristiana

La bellezza del «chiamato»

di Timothy Verdon

Nello stesso anno che ha consacrato ai sacerdoti, il Papa vuole anche rinnovare il dialogo della Chiesa con gli artisti, ricevendone un gruppo rappresentativo il 21 novembre prossimo nella Cappella Sistina, nel decennale della Lettera a loro indirizzata da Giovanni Paolo II, e 45 anni dopo l'analogo incontro di Paolo VI con gli artisti, pure questo nella Sistina.
Si tratta solo di una coincidenza felice, ma, come succede spesso nella vita della Chiesa, la "felicità" si rivela in qualche modo provvidenziale e la "coincidenza" fa scoprire un legame profondo: quello a cui richiamò l'attenzione lo stesso Paolo VI, considerando gli artisti "sacerdoti" in analogia con i ministri ordinati, con il compito di rendere visibili le verità invisibili di cui questi parlano.
Nella Sistina, sotto gli affreschi di Michelangelo raffiguranti il Dio creatore, Papa Montini prospettò a uomini e donne dotati di umana creatività un utilizzo dei loro talenti al servizio della comunità credente non dissimile al servizio offerto dai sacerdoti, e credo che Benedetto XVI vorrà rievocare questo parallelismo, che illumina non solo la vocazione artistica ma anche quella presbiterale, la cui dimensione creativa troppo spesso è dimenticata.
Anche il prete, infatti, avverte in sé un misterioso potere di trasformare le cose - o, meglio, le persone - la cui sorgente è in Dio; anche il prete si sente chiamato a usare questo potere trasformativo per gli altri. Per lui come per l'artista, il senso della propria vita dipenderà dall'uso che fa del dono che lo esprime come uomo e lo qualifica nel rapporto con i fratelli; per lui come per l'artista il dono inoltre richiede preparazione, sacrificio e costante innovazione: anche nel sessantesimo anno di sacerdozio, un battesimo, una celebrazione eucaristica o una confessione devono avere la freschezza dei primi giorni dopo l'ordinazione.
All'interno di questo suggestivo parallelismo, è utile considerare come gli artisti abbiano interpretato il momento - comune certo a tutti i cristiani, ma vissuto con particolare intensità da loro e dai sacerdoti - della presa di coscienza del dono e della scelta di accoglierlo e d'usarlo: della "vocazione" cioè e della "risposta".
Precisiamo che gli artisti, se intuiscono una qualche analogia tra la propria chiamata e quella dei ministri ordinati, capiscono anche che l'esperienza della "vocazione" si verifica più chiaramente, secondo un modello biblico classico, in quanti sono chiamati a impersonare Cristo davanti ai fratelli che non nei collaboratori di vario genere che Dio suscita per loro nella comunità. Il soggetto iconografico della vocazione infatti si riferisce non agli artisti stessi, anche se questi s'identificano all'esperienza, ma ai ministri che Dio chiama al servizio del suo popolo.
Il maggiore di questi è Cristo stesso, che "prende coscienza" della vocazione del Padre e risponde liberamente accettando da Giovanni il battesimo nel Giordano. Bellissima è la versione di questo tema eseguita da Piero della Francesca, in cui la figura del Salvatore ha una centralità e una dignità associate al dogma dell'incarnazione. L'uomo classicamente bello immaginato dal maestro quattrocentesco afferma infatti la credenza che in Gesù Cristo nato da Maria e cresciuto a età adulta è presente la pienezza della divinità. Egli è vero Dio oltre che vero uomo, e la bellezza attribuitagli esprime l'impareggiabile dignità dell'essere umano la cui natura è stata assunta da Dio; forse ognuno chiamato in Cristo si percepisce analogamente "bello" agli occhi del Padre, elevato e nobilitato dall'Altissimo, al centro di un suo piano.
Ma c'è di più: nel dipinto di Piero la bellezza attribuita a Cristo è quella derivante dall'antichità - la bellezza di una statua classica, per intendersi - così che l'immagine esprime anche un rapporto con il passato. Nell'umanità di Cristo, Piero sembra dire, è realizzata anche la sensibilità grecoromana: è valorizzato tutto ciò che, nel culto degli dei antichi, adombrava e preparava la verità evangelica.
Questa tavola di Piero era in origine una pala d'altare, così che l'immagine del corpo umano assunto da Dio doveva essere vista sopra la mensa su cui pane e vino diventavano corpo e sangue dello stesso Figlio di Dio. Il rapporto con un passato lontano implicito nell'evocazione della statuaria antica s'imponeva cioè nel contesto della messa, in cui il tempo è infatti superato e l'evento salvifico dell'offerta di sé compiuto da Cristo viene, non rappresentato, ma ripresentato, reso realmente presente. Ciò significa che, davanti all'abbagliante visione della natura che l'artista ha creato intorno a Cristo, degli elementi naturali - pane e vino fatti dalla terra - diventavano presenza reale della nostra umanità divinizzata.
In Cristo, ogni sacerdote, soprattutto quando celebra l'Eucaristia, è "mediatore" tra i tempi che furono e il presente, come anche tra Dio e il creato.
Piero della Francesca fa vedere cioè il Cristo chiamato dal Padre all'interno di una serie di importanti relazioni: con la storia passata, con culture lontane e con l'immensità del cosmo. Lo fa vedere soprattutto in relazione con altri uomini, in relazione con se stesso, in relazione stretta con Dio: questo Cristo accetta il battesimo da Giovanni, ne comprende le implicazioni e ne accetta le conseguenze, e sente allora le parole del Padre suo: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Luca, 3, 22). Il Cristo di Piero è perciò - come deve essere per chi lo incontra il sacerdote - un'icona di libertà, d'impegno consapevole, di relazione familiare nell'amore; sa che, facendo questo passo, si sta incamminando verso un altro battesimo - la croce adombrata nell'albero alla sua destra - che lo farà scendere non nell'acqua ma nella morte. Lo sa, lo accetta, sente la vicinanza del Padre e descrive quanto abbia provato quando, poco più di un mese dopo, dice: "Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Luca, 4, 18-19; cfr. Isaia, 61, 1-2). Non vi è sacerdote di Gesù Cristo che non applichi queste stesse parole alla propria vocazione.

(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2009)

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