lunedì 25 maggio 2009

Israele e Palestina: due popoli, forse due Stati, più un terzo incomodo. I cristiani (Respinti e Tirabassi)


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Un messaggio di pace dal cimitero polacco. Il pontefice ha voluto così ricordare tutte le vittime di guerra (Pagliarella)

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Nella scelta del nome il segno di un forte legame fra Joseph Ratzinger e San Benedetto (Cardinale)

Il Papa a Cassino: "La preghiera, a cui ogni mattina la campana di san Benedetto con i suoi gravi rintocchi invita i monaci, è il sentiero silenzioso che ci conduce direttamente nel cuore di Dio; è il respiro dell’anima che ci ridona pace nelle tempeste della vita" (Omelia a Cassino)

Comunicato stampa di Telepace: dal 16 giugno l'emittente trasmetterà in digitale. Ne approfitto per i doverosi ringraziamenti a Telepace...

IL PAPA A CASSINO E MONTECASSINO: I VIDEO ED I PODCAST

VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE A CASSINO E MONTECASSINO (24 MAGGIO 2009): LO SPECIALE DEL BLOG

Su segnalazione della nostra Alessia leggiamo:

Israele e Palestina: due popoli, forse due Stati, più un terzo incomodo. I cristiani

Le alternative alla “two state solution” sono pura utopia, concordano tutti. E allora cosa manca? Come sempre l’iniziativa dei Paesi arabi, dove i non islamici soffrono

di Marco Respinti e Leonardo Tirabassi

Il viaggio di Papa Benedetto XVI in Israele è stato un successo. Non siamo noi a dirlo, ché sarebbe poca cosa, ma i protagonisti, e questo è accaduto senza che il pontefice abbia praticato sconti indebiti. Se ne parlerà a lungo; notiamo solo che mediazioni intelligenti come quelle operate dal pontefice sono un gioco che, per dirne una, all’Organizzazione delle Nazioni Unite non riescono mai.
Del resto, quello in cui viviamo è un mondo particolare, in cui la “caccia al pontefice” è aperta da tempo, e ben poco regolata, ma dove l’unica autorità riconosciuta nonostante le contumelie è proprio quella del Vicario di Cristo.
Bene inteso, non si tratta di religione; il pontefice è infatti ascoltato da masse e da leader che con la fede di cui è portatore non hanno alcunché a che fare, né di quelli è calendarizzata la conversione. Ma gli è che il carisma di cui il papa è investito (e non è mai solo una questione di amabilità personale, visto che accade sempre, chiunque sia l’uomo di bianco vestito) riesce là dove i mille autonominatisi fari della comunità internazionale falliscono costantemente.
Ora, tra le prime preoccupazioni di Roma a proposito di Medio Oriente e paraggi è la situazione penosa dei cristiani. Da sempre elemento imprescindibile di moderazione delle situazioni più scottanti (il caso del Libano resta esemplare), i cristiani del mondo arabo, ossia gli arabi cristiani, sono la prima vittima dell’annoso conflitto israelo-palestinese, così come del più recente scontro fra Occidente e mondo musulmano, ma pure del terrorismo jihadista.
Ad avere riacceso i riflettori su una situazione sempre oscurata – ben presente al Vaticano, ma sostanzialmente tabù per il resto del mondo – è stato Magdi Cristiano Allam.
Allam prese le difese di quei cristiani dimenticati ben prima di convertirsi al cattolicesimo, avendo pure la sagacia di ricondurne la questione in quel quadro più grande e spaventoso che è la lotta scatenata dai tempi nostri contro contro la verità delle cose; e Allam quei cristiani continua a difenderli oggi, portando la sua doverosa battaglia culturale anche sul piano politico, addirittura nelle sedi internazionali, e questo con una unità d’intenti e con una linearità di cammino esaustivamente descritti nella sua autobiografia-programma Europa cristiana libera. La mia vita tra Verità e Libertà; Fede e ragione, Valori e Regole (Mondadori, pp. 174, E 18,00).
Sua è del resto la prefazione al bel libro di Rodolfo Casadei, Il sangue dell’agnello. Reportage fra i cristiani perseguitati in Medio Oriente (Guerini, Milano 2008, pp. 204, E17,50), un libro che l’inviato speciale del settimanale Tempi ha costruito sul campo raccogliendo il grido di aiuto lanciato da migliaia di christifideles (anche protestanti) di Turchia, Giordania, Siria, Libano e soprattutto Iraq. Già, perché, con buona dose di malafede certa, sommata a un giro mentale somigliante più a cortocircuito che a logica formale, la politicizzazione fondamentalista dell’islam di oggi identifica, o comunque sovrappone, le comunità cristiane del mondo arabo con l’Occidente, in particolare con gli Stati Uniti d’America e con le loro offensive militari. Di per sé è un'appropriazione indebita, ma al mondo jihadista torna propagandisticamente comodo descrivere i cristiani arabi come servi dello straniero.
L’effetto più immediato delle persecuzioni è – ovvio – l’uccisione di centinaia di vittime innocenti, ma è cogente pure un altro, se possibile ancora più grave, pericolo: l’estinzione totale per esodo.
È già gravissimo che i cristiani siano considerati cittadini di serie b anche se egiziani, turchi o sauditi a pieno titolo; è ancora più grave il tributo di vite innocenti a cui sono quotidianamente costretti in molti quartieri del mondo arabo; ma è persino peggio il fatto che, se continua così, presto nel Medio Oriente resteranno solo un ricordo oppure una minoranza nascosta in qualche cantuccio sperduto.
Di ciò ragiona bene il volume collettaneo, frutto dello sforzo ricognitivo e interpretativo della Comunità di Sant’Egidio, I cristiani in Medio Oriente tra futuro, tradizione e islam (Leonardo International, Milano, pp. 126, E12,00), che raccoglie contributi di Antoine Audo, Lucio Caracciolo, Régis Debray, Giuliano Ferrara, Jacques Huntzinger, Tareq Mitri, Samir Morcos, Pierbattista Pizzaballa, Andrea Riccardi, Bernard Sabella, Leonardo Sandri e Jean Banjamin Sleiman.
La cosa però non è limitata al Medio Oriente. La persecuzione dei cristiani è infatti oggi un vero e proprio nuovo Colosseo di portata mondiale, dalla Cina all’America Meridionale, dallo Sri Lanka ai Balcani, e i carnefici sono, oltre che islamici, indù, neocomunisti alla venzuelana e liberal d’assalto alla spagnola. Lo documenta Il libro nero delle nuovo persecuzioni anti-cristiane (Fede & Cultura, Verona, pp. 172, E16,00) del ricercatore francese Thomas Grimaux, che, già famoso all’estero, giunge ora anche in italiano. Un abbecedario di soprusi e di nefandezze che andrebbe insegnato nelle scuole e gridato da sopra i tetti. Il problema, infatti, investe tutti: non solo le Chiese cristiane, ma ogni uomo, Stato, istituzione.
Fattore di morigerazione e di civiltà, di benessere e di pace (anche se questo non va giù a mille laici laicisti del nostro mondo grasso e ricco, nonostante la crisi economica), il cristianesimo è la fonte prima dei miglioramenti sociali e di quel surplus di umanità che altrove non esiste, e questo è ormai un fatto certo, documentato, ne abbiamo parlato, ne parleremo ancora. Se i cristiani scompariranno da molti luoghi del globo sarà un danno civile per tutti, e questo è un altro elemento oggettivo. Immaginate Asia e Africa senza scuole, ospedali e charity dei cristiani, immaginatevi un mondo senza quelle opere ispirate da quella fede, uniche le une quanto l’altra. Anche un ateo non suicida lo intuisce, soprattutto un laico che soffre. Perché, dunque, non porre i cristiani del mondo, in specie quelli perseguitati, sotto tutela internazionale come un bene dell’umanità intera?

Marco Respinti

Nell’ultimo discorso pronunciato nella terra di David, Papa Benedetto XVI ha indicato in modo preciso l’unica strada possibile per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. «Che la two-State solution divenga realtà e non rimanga un sogno», ha infatti detto il pontefice, confermando «il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti ad Israele» e riconoscendo «che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente, sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente».
Parole chiare, queste, che rafforzano la prospettiva auspicata dal presidente statunitense Barack Obama, il quale della soluzione del nodo mediorientale ha fatto una propria prerogativa di politica estera animata da una visione complessiva (comunque la si voglia giudicare) capace di tenere unite le diverse crisi regionali in un disegno unico. E pure Tony Blair – rappresentante del Quartetto composto da Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite – ha proposto la medesima soluzione il 18 maggio, nel corso di un’audizione alla Commissione Esteri del Senato statunitense svoltasi in vista della visita ufficiale del premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca. «Non vi è nessun’altra iniziativa che possa funzionare oltre la soluzione dei due Stati», ha espressamente detto Blair. «Politica, geografia e demografia, tutto va in quella direzione».
Dato che dunque nessuno mette oggi in discussione questo indirizzo, rimane allora importante comprendere se e quali alternative vi siano, e quindi anche capire come e perché il processo di pace iniziato a Oslo nel 1993 (in un altro secolo, con Yasser Arafat in vita e con Al Qaida praticamente sconosciuta) sia poi tragicamente naufragato.
“Terra in cambio di pace” era la parola d’ordine di allora, l’architrave di qualsiasi possibilità di accordo. La strategia aveva del resto già funzionato con l’Egitto di Anwar al-Sadat, quando Israele, il 26 marzo 1979, restituì ufficialmente la penisola del Sinai precedentemente occupata in seguito agli accordi di Camp David. A Oslo la speranza fu dunque che lo stesso meccanismo funzionasse ancora con i palestinesi, ma così non accadde e questo generò l’opzione israeliana dei ritiri unilaterali. Per capire quindi la linea Netanyahu bisogna tenere presente che a opporsi alla soluzione “due popoli, due Stati” furono anzitutto Arafat e l’intransigenza dell’OLP, il quale al tempo sognava la costituzione di uno Stato palestinese unitario che sostituisse per intero Israele. Ovvio che il processo di pace si arenasse.
Oggi la situazione resta spinosa e presenta dinamiche nuove. Anzitutto la delusione israeliana seguita al clamoroso fallimento di Oslo, poi la questione demografica, che è una vera e propria bomba. In Israele vivono infatti 5,4 milioni di ebrei e 1,3 milioni di arabi, a cui vanno aggiunti 3-3,8 milioni (non si sa con certezza) di altri arabi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. In capo a un decennio, quindi, tra il Giordano e il Mediterraneo vi saranno più arabi che ebrei: il geografo Arnon Sofer sostiene del resto che nel 2020 la popolazione dell’area raggiungerà i 15,5 milioni d’individui, con 15,5 milioni di ebrei e 8,8 milioni di arabi.
Il tasso di natalità degli arabo-palestinesi è infatti uno dei più elevati del mondo intero: più del 3% l’anno, con punte del 5 tra le popolazioni beduine che vivono nel sud d’Israele, contro l’1,5 degli ebrei israeliani. Se allora Israele pensa di rimanere uno Stato ebraico e democratico – ecco la prima tesi alternativa ai “due Stati” proposta dallo storico Tony Judt (Israel: The Alternative, in The New York Review of Books, 23 ottobre 2003) –, l’unica possibilità è la creazione di un «singolo Stato binazionale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi», fatto “sempre più probabile […] ed esito […] desiderabile». Uno Stato, cioè, a maggioranza araba e minoranza ebraica, ipotesi già presa in esame dalla Commissione Peel nel 1937.
Si tratta però di un realismo falso. L’obiezione è presto detta: lo Stato unico non sarebbe composto da due popolazioni con uguali diritti, ma da una maggioranza araba che prenderebbe presto il sopravvento e da una minoranza ebraica che, costretta a prendere in considerazione l’emigrazione, prenderebbe a difendersi tenacemente, innescando un nuovo ciclo di violenze. Insomma, perché Israele dovrebbe accettare il suicidio proprio non si capisce.
Una seconda alternativa parte da tre considerazioni. La spartizione è impraticabile per ragioni geo-economiche: come può un Stato palestinese unico essere formato da entità territorialmente non contigue? Come può la microentità di Gaza unirsi alla Cisgiordania? I precedenti di Pakistan e Bangladesh sono falliti miseramente. Poi, sul piano politico, i palestinesi restano divisi in due fazioni nemiche, l’Autorità Palestinese e Hamas, che hanno obiettivi diversi. Con chi trattare? In terzo luogo – come afferma il politologo di Tel Aviv Efraim Inbar (The Rise and Demise of Two State Paradigm, in Orbis n.53, primavera 2009) – fino a oggi i palestinesi non sono stati capaci di esprimere una dirigenza in grado di governare con responsabilità: la corruzione è alle stelle; Gaza e Cisgiordania sono preda di clan, milizie private, delinquenza organizzata; lo Stato di diritto e il rispetto delle minoranze sono espressioni vuote (si guardino la condizioni dei cristiani); e i servizi essenziali, nono-stante gli aiuti miliardari forniti dalla comunità internazionale, sono ridotti al lumicino.
Rimane quindi un’ultima alternativa: far sì che i Paesi arabi si facciano carico del problema palestinese, costruendo una federazione tra i territori palestinesi e gli Stati confinanti quali l’Egitto (a cui apparteneva Gaza) e la Giordania (dove i palestinesi sono il 70% della popolazione e in cui vivono 800mila profughi).
E così, attendendo una soluzione, Israele prende tempo, gestisce la crisi con poche illusioni e ricostruisce il proprio potenziale di deterrenza, come dimostra l’azione militare intrapresa a Gaza nel dicembre del 2008.

Leonardo Tirabassi

© Copyright Il Domenicale, 25 maggio 2009 consultabile online anche qui.

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