venerdì 21 novembre 2008

Intervista al card. Arinze su Africa, riforma liturgica, Concilio Vaticano II e Sinodo 2009 (Osservatore Romano)


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A colloquio con il cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

Pace e giustizia sono il futuro dell'Africa

di Nicola Gori

Cinquanta anni di sacerdozio. Per il cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti - che sabato 22 novembre celebra nella basilica di San Pietro il giubileo di ordinazione presbiterale - è il momento di tracciare un bilancio. Che parte dagli anni della formazione in terra nigeriana e arriva alla sua esperienza alla guida del dicastero vaticano per la liturgia. Con lo sguardo rivolto al futuro, in particolare alla prossima assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi: un evento provvidenziale "perché - sottolinea - c'è bisogno di più giustizia e di pace in Africa".

Che cosa ricorda degli anni della sua formazione in terra africana?

Ho studiato filosofia nel seminario di Enugu in Nigeria dal 1953 al 1955. I nostri formatori erano sacerdoti spiritani irlandesi, che hanno fatto un buon lavoro. Successivamente il mio arcivescovo mi mandò a Roma a studiare nel Pontificio Collegio Urbano de Propaganda Fide, dove ho conseguito la laurea in teologia. Sono rimasto nel collegio dal 1955 al 1959. A quel tempo il rettore era monsignor Felice Cenci, della diocesi di Roma, di cui conservo un buon ricordo. Il 23 novembre 1958 sono stato ordinato sacerdote nella chiesa del Pontificio Collegio.

Quando ha fatto ritorno in patria?

Dopo il dottorato in teologia, dal gennaio 1961 al luglio 1962, sono stato nominato docente nel Bigard memorial seminary, dove mi ero formato. Poi sono stato chiamato a ricoprire l'incarico di segretario regionale dell'educazione cattolica. Dopo un anno, il vescovo mi ha inviato a Londra per studiare pedagogia. Sono rimasto a Londra dal 1963 al 1964 nell'istituto dell'educazione, facente parte dell'università di Londra. Si trattava di un corso per laureati che volevano specializzarsi in pedagogia. Rientrato in Nigeria, ho ripreso il mio lavoro di segretario dell'educazione cattolica.

Quello era il periodo del concilio Vaticano ii. In che modo ha inciso sulla sua formazione?

Direi in modo diretto. Consideri che il 6 luglio 1965 sono stato nominato coaudiutore dell'arcivescovo di Onitsha - al quale due anni dopo sono succeduto - e, appena due settimane dopo la mia ordinazione episcopale, ho partecipato all'ultima sessione del concilio Vaticano ii. Per me è stata un'esperienza molto bella. Avevo 32 anni e in quel periodo si stavano approvando i documenti conciliari. Ho avuto l'onore di firmare molti di essi, anche se non avevo contribuito alla loro stesura.

Parliamo della sua esperienza pastorale africana. Come giudica gli anni trascorsi alla guida dell'arcidiocesi di Onitsha?

Sono stati anni certamente non monotoni, se si pensa che due giorni dopo la mia nomina ad arcivescovo scoppiò la guerra civile. Le difficoltà erano già latenti: vi erano conflitti e problemi tra gruppi etnici, tra il governo centrale e i governi regionali. La prima cosa che pensai come arcivescovo fu di salvare i missionari, in particolare gli irlandesi. Quando la guerra toccò direttamente una parte dell'arcidiocesi, mi occupai di trovare rifugio ai profughi e agli sfollati. Mi interessai di affidare queste persone alla cura di sacerdoti e cercai aiuti internazionali per risolvere il problema della mancanza di beni di prima necessità. Contattai diversi organismi e istituzioni. Fu un periodo fecondo di collaborazione con sacerdoti, religiosi e laici.

Ha mai temuto per la sua incolumità?

La guerra non aveva considerazione per nessuno. Spesso missili e bombe cadevano proprio vicino alla nostra residenza. Ho dovuto cambiare dimora tre o quattro volte. L'arcivescovado è stato distrutto e saccheggiato. Io incoraggiavo i missionari, specialmente quelli stranieri, anche se molti di loro furono costretti a rientrare nei loro Paesi di origine. Nonostante il conflitto, però, la vita della diocesi è continuata. In una situazione di grave difficoltà, ovviamente. Basti pensare che prima della guerra c'erano 80 sacerdoti, mentre, dopo l'espulsione dei missionari, ne erano rimasti appena 33.

Per questo fu difficile in quel periodo attuare le disposizioni del concilio Vaticano ii nella diocesi?

Non fu certo facile, anzi, fu una grande sfida. Quando torno indietro con la memoria, ricordo quel periodo con molta gioia. Cominciammo a operare per l'attuazione del Vaticano ii al termine dei due anni di guerra civile, cioè nel gennaio 1970. Ero un vescovo giovane. Avevo visto quel concilio dal vivo, ma non avevo un grande bagaglio di esperienza alle spalle. In quel periodo, discutere i documenti con i sacerdoti e i laici era per me una gioia.

Nel 1984 il Papa la nominò Pro-presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso. Come visse quella chiamata?

Sinceramente io ero contento di essere arcivescovo di Onitsha. Quando mi chiamarono da Roma per conoscere la mia disponibilità, dissi che dove il Papa mi chiamava, io sarei andato. Devo riconoscere che non avevo molta esperienza di dialogo con i non cristiani, per esempio con i musulmani. Anche se nella zona di Onitsha vi erano piuttosto i seguaci della religione tradizionale africana, che peraltro conoscevo molto bene.

Che ricordo le è rimasto in particolare di quella esperienza?

È stata una esperienza arricchente. Ricordo, per esempio, la stima e l'ineteresse che i giapponesi - in maggior parte buddisti e shintoisti - avevano nei confronti del Papa. E non dimentico i vari contatti avuti con personalità del mondo islamico, dall'Egitto all'Arabia Saudita. Un fatto mi ha sempre colpito. Dopo che Giovanni Paolo ii visitò Al Azhar nel Cairo, i musulmani chiesero che da allora in poi gli incontri di dialogo con i cattolici avvenissero sempre intorno al 24 febbraio, data di quella visita, in ricordo della presenza del Papa. È stata una gioia essere strumento di Dio in quel momento storico della vita della Chiesa.

Nel 2002 lei è stato nominato prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Che esperienze aveva in campo liturgico?

Non ero impreparato, perché avevo già compiuto studi e approfondimenti liturgici. La tesi che avevo discusso alla Pontificia Università Urbaniana parlava di "Sacrificio nella religione tradizionale del popolo Igbo in Nigeria" e voleva essere un aiuto alla catechesi sulla messa. A quel tempo la liturgia era già importante per me, in particolar modo la liturgia eucaristica, verso cui nutrivo uno speciale interesse.

In che cosa consiste l'attività del dicastero?

La liturgia è nel cuore della Chiesa. Se la Chiesa non celebra l'Eucaristia, diventa un'istituzione obsoleta, quasi un museo. Se la Chiesa non prega, la Chiesa non vive. La liturgia è il respiro della vita della Chiesa. La Chiesa è nata per adorare Dio, onorarlo e lodarlo. La messa è l'atto più alto che la Chiesa possa fare. Io dico sempre che l'unica cosa grande quanto una messa è un'altra messa. La Chiesa non possiede niente di più elevato. Questo è essenzialmente il centro dell'attività del dicastero, che si occupa anche degli altri sacramenti, della liturgia delle ore, delle benedizioni e delle orazioni.

È stata recepita in pieno la riforma liturgica del Vaticano ii?

Dopo un evento come quello conciliare, ci vuole tempo per capire e applicare ciò che è emerso. Anche dopo un terremoto, del resto, c'è sempre qualche scossa di assestamento. Ora, ci sono persone che non digeriscono ciò che il Vaticano ii ha detto. Altre che pretendono di dettare l'interpretazione autentica dello spirito conciliare. Altre ancora che auspicano addirittura un nuovo concilio. Non sorprende che dopo il Vaticano ii vi sia stato chi ha aperto qualche finestra di troppo. Ma ovviamente la colpa non è di quel concilio, ma di chi non l'ha recepito nel modo giusto o l'ha addirittura rifiutato nei fatti. Si può dire, comunque, che oggi la situazione sia certamente più tranquilla rispetto a trent'anni fa.

Quali sono i maggiori problemi che riscontrate nel campo della liturgia?

Diciamo subito che la Congregazione non è una sorta di "polizia" ecclesiastica o di "pronto intervento" per ogni genere di problemi. Il dicastero è nato in primo luogo per promuovere il culto divino. Certamente non possiamo chiudere gli occhi di fronte a situazioni oggettivamente problematiche. Abbiamo scritto nella Redemptionis sacramentum del 2004 che molti abusi non sono dovuti a cattiva volontà, ma all'ignoranza. Qualcuno non sa, ma purtroppo non è consapevole di non sapere. Non sa, per esempio, che le parole e i gesti hanno radici nella tradizione della Chiesa. Così crede di essere più originale e creativo cambiando quei testi e quei gesti. Di fronte a queste cose, bisogna riaffermare che la liturgia è sacra, è la preghiera pubblica della Chiesa.

Sono allo studio dei cambiamenti nel rito liturgico?

Ve ne sono alcuni scaturiti dal Sinodo dei vescovi sull'Eucaristia celebrato nel 2005. In aggiunta all'Ite, missa est, per esempio, il sacerdote oggi ha a disposizione altre formule, per far capire meglio ai fedeli che tutti noi siamo chiamati a vivere ciò che abbiamo celebrato, in modo più dinamico, più missionario. Benedetto XVI, dopo una serie di studi da noi condotti, senza abolire l'Ite, missa est, ha approvato tre alternative: Ite ad Evangelium Domini annuntiandum; Ite in pace glorificando vita vestra Dominum; Ite in pace. Un altro punto di riflessione riguarda una diversa collocazione del segno della pace durante la messa. Spesso non si comprende in pieno il significato di questo gesto. Si pensa che sia un'occasione per stringere la mano agli amici. Invece è un modo per dire a chi ci sta vicino che la pace di Cristo, presente realmente sull'altare, è anche con tutti gli uomini. Per creare un clima più raccolto mentre ci si prepara alla Comunione, si è pensato di trasferire lo scambio della pace all'offertorio. Il Papa ha chiesto una consultazione di tutto l'episcopato. Poi deciderà.

Nel prossimo anno si svolgerà il Sinodo per l'Africa. Quali sono le attese e le speranze?

Il tema di questo Sinodo sarà: "La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. "Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo" (Matteo 5, 13.14)". Il sinodo africano del 1994 aveva come tematiche di fondo evangelizzazione, giustizia e pace, inculturazione, mezzi di comunicazione e dialogo. Questa volta si mette a fuoco solo un tema, perché c'è bisogno di più giustizia e di pace in Africa. Intendiamoci, le cose non vanno tutte male: vi sono società pacifiche e nazioni democratiche. Ma vi sono ancora troppe violenze tra gruppi etnici, massacri, corruzione. E non possiamo far finta di non sapere. La Chiesa non ha una ricetta miracolosa per risolvere i problemi, tantomeno soluzioni politiche o economiche. Non è la sua missione: essa deve predicare il Vangelo, che comporta il rispetto dei diritti degli altri e la conversione del cuore. Se il cuore viene convertito, gli armamenti cadono dalle mani dei belligeranti.

(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2008)

1 commento:

Anonimo ha detto...

E' possibile tradurre e pubblicare la tesi del card. Arinze?
Mi sembra un tema davvero importante.