martedì 27 gennaio 2009
Giornata della Memoria: lo speciale dell'Osservatore Romano. Anna Foa: L'antisemitismo unico movente dei negazionisti
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Quando la menzogna si copre del velo della storia
L'antisemitismo unico movente dei negazionisti
di Anna Foa
Il negazionismo della Shoah non è un'interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un'apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l'antisemitismo.
Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l'unico antisemita chiaro e palese. L'odio antiebraico è all'origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti.
Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all'estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l'antiamericanismo, l'ostilità alla modernità. Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l'uno fascista dichiarato, l'altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l'inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.
I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti. Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla "verità dei vincitori". La storia della Shoah l'hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze.
Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell'epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. Et voilà, il gioco è fatto: la Shoah non esiste!
Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l'inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo: è questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.
Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d'Europa, anche se una parte dell'opinione pubblica rimane restia - come chi scrive - a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana. Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c'è un solo movente, un solo intento: l'antisemitismo. Tutto il resto è menzogna.
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
Nel lager di Görlitz la prima esecuzione del «Quartetto per la fine del tempo» di Messiaen
In trentamila al gelo a cercare dignità nella musica
di Marcello Filotei
Per uno degli impenetrabili misteri della storia i campi di sterminio tedeschi sono entrati in contatto con i desi-tala, un insieme di centoventi ritmi indiani che il compositore francese Olivier Messiaen rinvenne in un trattato del tredicesimo secolo. Letteralmente tala significa andamento ritmico, mentre desi si può tradurre con "del posto" e fa riferimento alle origini regionali. Messiaen si invaghì di questi ritmi, soprattutto perché erano ametrici, cioè non organizzati razionalmente attorno a una pulsazione ma costruiti su un piccolo valore sottoposto a processi di moltiplicazione o accumulazione. Come i ritmi greci, che pure il compositore amava, i desi-tala negano in qualche modo la regolarità ritmica occidentale.
Questi elementi costruttivi, illustrati nel Trattato sul ritmo, intercettarono lo sterminio nazista nel 1941 in Slesia, quando Messiaen decise di scrivere il Quator pour la fin du temps durante la prigionia, ispirandosi a immagini evocate dall'Apocalisse di san Giovanni. Il compositore aveva trentadue anni, stava svolgendo il servizio militare quando, nel maggio del 1940 fu fatto prigioniero dai tedeschi presso Nancy e internato nel campo di Görlitz. Nella primavera del 1941, quando nella Francia occupata i nazisti riconobbero il governo di Vichy come alleato, l'artista fu liberato e poté raccontare quello che gli era accaduto. Secondo la sua ricostruzione "il Quator pour la fin du temps ebbe la sua prima esecuzione nello Stalag viii a, il 15 gennaio 1941 con un freddo atroce". "Lo Stalag - ricorda - era sepolto dalla neve. Eravamo trentamila prigionieri (francesi per la maggior parte, con qualche polacco e belga). Suonavamo su strumenti di fortuna: il violoncello di Etienne Pasquier aveva solo tre corde, i tasti del mio pianoforte verticale si abbassavano e non si rialzavano (...) Mi avevano affibbiato un vestito verde completamente stracciato e ai piedi calzavo zoccoli di legno. Il pubblico comprendeva persone di ogni ceto sociale: sacerdoti, medici, piccolo borghesi, militari di carriera, operai, contadini".
Ma perché un uomo si decide a scrivere note in una situazione estrema? Per mantenere la propria dignità? Per fuggire mentalmente dalla sua condizione? Per esorcizzare il male che lo circonda? Per depositare il dolore da qualche parte? Perché pensa che la musica possa in qualche modo aiutare se stesso e gli altri? Forse perché non ne può fare a meno. Quello che stupisce è che non si tratta di un lavoro composto sull'onda emotiva: anche in un momento eccezionale Messiaen non può fare a meno di sviluppare il percorso estetico avviato in altri lavori scritti in periodi di libertà. Se il Quator è uno dei rari lasciti cameristici dell'autore, il cui organico (pianoforte, violino, clarinetto e violoncello) è ovviamente dettato dalle contingenze, la poetica di Messiaen non subisce particolari scosse anche se la struttura è insolita. La scelta di suddividere il lavoro in otto movimenti, solo quattro dei quali vedono la partecipazione di tutti gli strumenti, deriva da una precisa scelta programmatica. "Sette è il numero perfetto, la creazione di sei giorni santificata dal Sabato divino; il sette di questo riposo si prolunga nell'eternità e diventa l'otto della luce indefettibile, della pace inalterabile", spiega l'autore.
L'amore per le asimmetrie, che porta a una ineguale distribuzione dei carichi sonori tra gli strumenti, ispira anche l'impostazione della struttura ritmica, e qualche anno più tardi sarà proprio analizzando il quartetto che l'autore esporrà la sua teoria del ritmo, tanto che il titolo "per la fine del tempo", va inteso anche, o forse principalmente, come fine della possibilità di percepire il tempo. In effetti Messiaen utilizza qui tutti quegli accorgimenti tecnici messi a punto proprio per scardinare i principi ritmici occidentali, al fine di offrire una percezione temporale fluida, non legata a un battito ricorrente. In particolare nel sesto movimento, definito dall'autore "il pezzo più caratterizzato ritmicamente del quartetto", il compositore mette in pratica tre tecniche: l'uso del valore aggiunto, l'aumentazione o la diminuzione e i ritmi non retrogradabili.
La tecnica dell'uso del valore aggiunto consiste nell'addizionare un piccolo valore a una nota all'interno di un gruppo regolare, questo scombina completamente l'andamento, rendendolo fluido e irregolare. Aumentazione e diminuzione sono tecniche tradizionali che consistono nell'aumentare o diminuire proporzionalmente i valori metrici, per esempio raddoppiandoli o dimezzandoli. Messiaen utilizza il procedimento in maniera asimmetrica e irregolare, e anche in questo caso ottiene lo scopo che si prefigge, quello di non dare punti di riferimento basati su pulsazioni regolari. I "ritmi non retrogradabili", invece, sono un'invenzione del compositore francese. Il termine indica delle figurazioni simmetriche al loro interno in cui la successione dei valori rimane inalterata nei due sensi di lettura, come nei numeri palindromi.
In questa sorta di sospensione del fluire del tempo Messiaen individua un'immagine dell'eterno, e dunque del divino: un elemento tecnico definisce una concezione religiosa della musica.
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
Nel Giorno della memoria la voce dei sopravvissuti italiani alla Shoah
I riccioli d'oro e il riso ignaro di un bimbo che va a morire
di Gaetano Vallini
Ci sono pagine che tolgono il respiro. Ed è dura andare avanti. Nonostante ormai si conosca tutto o quasi della Shoah, l'orrore è tale - e quello che si percepisce è solo un'infinitesima parte di quanto provato da chi c'era - che si stenta a credere sia stato possibile. Eppure non riesci a fermarti, perché senti che lo devi alla memoria di quanti non ce l'hanno fatta; al coraggio di quanti hanno accettato di raccontare l'indicibile; e a una verità storica che qualcuno ogni tanto prova vergognosamente a rimettere in discussione.
Sarà perché ti inchioda di fronte alla degradazione di cui è capace l'uomo; sarà perché le testimonianze sono riportate anche in dialetto per restituirle nella loro pienezza, frammentate e ricomposte per ricostruire, come mai prima, la pagina più terribile e vergognosa della storia del secolo scorso; sarà perché sembra quasi di sentirle dalla viva voce dei sopravvissuti, ma Il libro della Shoah italiana (Torino, Einaudi, 2009, pagine 490, euro 42) curato da Marcello Pezzetti, riesce davvero a precipitare il lettore sulla soglia dell'inferno. Quell'inferno di cui parla Shlomo Venezia: "L'inferno... qualsiasi persona lo conosce dai libri, noi l'abbiamo vissuto". E lui, scelto a far parte del Sonderkommando di Birkenau - dove c'erano, scrive l'autore, "gli impianti omicidi più imponenti che l'uomo abbia edificato nel corso della storia" - sa quello che dice; lui stava all'inferno: doveva rimuovere i corpi dalle camere a gas, preparandoli per i crematori.
Quella di Venezia è la più agghiacciante tra le testimonianze raccolte da Pezzetti, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano, membro di diverse istituzioni dedicate alla ricerca sulla Shoah, consulente dei registi Spielberg e Benigni, coautore del film Memoria, nonché direttore del costituendo Museo della Shoah di Roma. L'autore ha tirato le somme di un lavoro iniziato alla fine degli anni Ottanta, quando il Cdec cominciò a effettuare alcune interviste audio ai sopravvissuti. In seguito furono contattate le comunità ebraiche italiane affinché offrissero un aiuto nella ricerca. E si pensò di realizzare dei video con ciascun testimone.
La prima intervista filmata fu realizzata il 15 giugno 1995, a Milano, con Rachele Levi, della comunità ebraica italiana di Rodi. L'ultima, a fine 2008, a uno dei pochissimi superstiti della retata del 16 ottobre 1943, a Roma, ancora in vita: Enzo Camerino, residente a Montreal, di passaggio nella capitale. In totale sono stati intervistati - riportandoli per quanto possibile nei luoghi di prigionia - centocinque ebrei, sessanta donne e quarantacinque uomini, sopravvissuti alla deportazione dall'Italia, compreso il Dodecanneso, tra il 1943 e il 1945. Di essi, ottantotto finirono ad Auschwitz (dove il primo convoglio italiano arrivò il 23 ottobre 1943), quattro a Ravensbrück, tre a Bergen-Belsen, uno a Buchenwald e i restanti in altri luoghi.
Il lavoro è stato lungo, complesso e doloroso. "Doloroso - sottolinea l'autore - innanzitutto per chi è stato intervistato, spesso consapevole di offrirci con grande generosità una parte importante della propria vita che aveva deciso di non rendere mai pubblica, in secondo luogo per i componenti delle loro famiglie, che in molti casi hanno assistito alle interviste e hanno appreso la sorte dei propri cari nei dettagli solo in quell'istante, infine per noi che abbiamo raccolto la loro storia e la loro memoria, dal momento che è stato estremamente difficile mantenere un equilibrio tra il necessario rigore scientifico che doveva contraddistinguere il nostro approccio e il coinvolgimento umano che la drammaticità delle testimonianze suscitava".
E il coinvolgimento umano non manca certo nella lettura di questo volume, pubblicato in occasione del Giorno della Memoria, che ripercorre le varie tappe del progetto di sterminio: la vita prima del fascismo, la convivenza con il regime, l'umiliazione delle leggi razziali, la violenza dell'occupazione nazista, gli arresti, gli interrogatori, la detenzione in carcere, il transito nei campi di concentramento italiani, il viaggio verso i lager, la prigionia nei campi della morte. È una lenta caduta nel tunnel della follia antisemita, nella peggiore delle abiezioni umane. Fino alla liberazione, al difficile ritorno a una vita che sembrava perduta, tra il lutto inconsolabile per i propri cari morti e il senso di colpa per essere sopravvissuti.
Ognuno di questi momenti viene introdotto da una breve scheda che inquadra i luoghi e i fatti. Il resto lo raccontano loro, i testimoni, senza sconti, senza concedere nulla alla fantasia. Quanto raccontato sembra prendere forma. E li vedi lì, nel ghetto di Roma, cercare di sfuggire alla caccia, impauriti e sorpresi per l'inattesa violenza. Cogli il sollievo e la gratitudine per l'insperato aiuto di un conoscente, magari un cattolico, a volte un prete o una suora; o al contrario l'incredulità e la rabbia per la delazione di un vicino di casa, fino ad allora considerato amico.
Li immagini nelle carceri, mentre vengono seviziati durante gli interrogatori attraverso i quali gli aguzzini cercano di estorcere i nomi di parenti e conoscenti ebrei. Li osservi persi nel Campo di Fossoli, o alla Risiera di San Sabba, macerati dai dubbi sul loro futuro incerto, mentre cominciano a giungere alle loro orecchie notizie spaventose. Senti l'asfissiante oppressione delle centinaia di persone rinchiuse nei carri merci, ammassate come bestie, in un viaggio disumano verso quelli che ci si illude siano campi di lavoro, mentre i più anziani e i più deboli cominciano già a morire.
E poi l'arrivo nei lager; per la stragrande maggioranza Auschwitz-Birkenau, un luogo sul quale tra i deportati già circolavano voci tanto terribili quanto inverosimili. Li vedi su quella banchina, smarriti, impauriti, piangenti e tremanti, con gli sguardi attratti dal sinistro bagliore di quelle oscure ciminiere fumanti, con quell'odore nauseante e sconosciuto che avvolge tutto. Cogli l'angoscia straziante di quanti sono subito separati dai familiari: genitori, fratelli, sorelle, mariti, figli, i più grandicelli. I più piccoli sono immediatamente avviati con le mamme verso le camere a gas, assieme ad anziani e malati. Senti le loro urla terrorizzate, impotenti, disperate.
"Siamo arrivati alla mattina - ricorda Ida Marcheria - ed è stata subito una Babele: urla, grida, abbaiare di cani. C'hanno levato il papà e i nostri fratelli, poi ci hanno diviso dalla mamma. A mamma l'hanno fatta salire su un camion, dicevano che noi dovevamo andare a piedi perché eravamo giovani. È salita sul camion e ci ha raccomandato: "Bambine, state sempre insieme!". Forse lo sentiva, non lo so... comunque non ha pianto la mia mamma, non piangeva. Non l'ho vista più. La mamma... è quella sera che è morta". "Il momento più terribile? La separazione dai genitori. È stata - dice Trahamin Cohen - una cosa tremenda... È stato terribile, terribile! Molte volte purtroppo questa scena mi viene in mente in sogno. Ma il ricordo è peggio del sogno. Il ricordo a me mi ammazza. Non ci reggo...".
A Birkenau furono deportati circa duecentomila bambini, di loro seicento erano italiani. Tra questi c'era anche il più piccolo ebreo deportato dall'Italia. "Figlio di Marcella Perugia, nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, il giorno prima della partenza. Questo bambino, forse nemmeno arrivato a Birkenau, è rimasto senza nome". Il libro è dedicato a lui.
La quasi totalità dei bambini venne uccisa nelle camere a gas il giorno stesso dell'arrivo. Il loro ricordo è il più straziante. "I bambini... i bambini che scendevano dai vagoni erano come i bambini di tutto il mondo: piccoli, assolutamente ignari del loro destino... In particolare - sono le parole di Nedo Fiano - io ricordo un servizio di notte, quando è arrivato dalla Francia un convoglio di bambini molto piccoli, credo che nessuno superasse i cinque anni. Il fatto unico è che questi ragazzi erano felici, contenti di scendere da questi vagoni dov'erano stati per giorni, avevano sottobraccio i loro giocattoli e si avviarono verso il crematorio. Si tenevano, ricordo, in file di tre... si tenevano per mano. Mi ricordo un bambino coi capelli biondi, dai riccioli meravigliosi, riccioli d'oro, così felice... Era straziante, una scena incredibile".
Tremendi sono anche i ricordi della vita del campo: l'angosciante rito delle selezioni - "È lì che abbiamo incontrato il dottore Mengele, il maledetto, e lui ha cominciato a separare gli uomini dalle donne con un cenno della testa", dice Arianna Szörényi - e il freddo, la fame, l'agonia dei malati, i Kinderblock dove finivano i bambini oggetto di sperimentazioni; e ancora le angherie, le violenze gratuite, brutali, inumane. "Davanti a me - ricorda Alberto Sed - c'era uno del Kommando che portava un regazzino verso un carretto; c'erano due tedeschi, uno dei quali gli ha detto: "Férmete! Il regazzino nun l'appoggiare, ma lancialo dentro il carretto!" 'Sto regazzino poteva ave' cinque, sette mesi... quando questo l'ha buttato, inaspettatamente uno dei due ha tirato fuori la pistola... e c'ha fatto il tiro a segno. Avevano scommesso dei marchi".
"C'era la violenza più totale, la violenza assoluta. La violenza fisica prima di tutto, poi la violenza psicologica. Era - racconta Piero Terracina - un vivere continuamente sotto la paura delle percosse, delle punizioni, delle selezioni. Lì sapevamo che dovevamo morire. Potevamo morire dopo un giorno, dopo una settimana, dopo un mese, non si andava oltre con il pensiero". C'era la certezza di quell'inferno di cui parla Shlomo Venezia.
Eppure, mentre tanti si lasciavano andare, altri si aggrappavano alla vita, spinti soprattutto dalla volontà di ritrovare un giorno i familiari da cui erano stati divisi. "Io vivevo soprattutto con l'idea di resistere per trovare le bambine, per ritornare con le bambine", dice Giulia Fiorentino Tedeschi. "Quello che mi spingeva a sopravvivere - è invece il ricordo di Virginia Gattegno - era l'idea di uscire di lì, cioè di morire magari appena fuori, ma non lì dentro a quell'inferno, non da prigioniera. Morire come un essere umano, insomma".
Qualcuno arrivò a vedere il giorno della liberazione dei campi, alcuni tuttavia morirono nei giorni successivi per le malattie e gli stenti patiti, senza poter assaporare la ritrovata libertà. Ma per molti il ritorno alla vita non è stato facile. Emblematiche le parole di Ida Marcheria e di Alberto Israel, che riassumono lo stato d'animo di tanti sopravvissuti: "Io maledico il giorno che sono uscita da quel lager. Non dovevo uscire, non dovevo mai tornare. Non so gli altri, può darsi che sono felici, non lo so". "C'è una cosa che devo dire, con molta fatica: noi abbiamo un rimorso... perché noi siamo riusciti a vivere. Non avremo mai pace fino al giorno in cui non andremo a raggiungerli". Ma per altri prevale il senso di riconoscenza, nonostante tutto, malgrado il ricordo che non si cancella mai, e che torna come un incubo ricorrente. Nonostante quel "dov'era Dio" che ancora angoscia molti.
C'è tutto questo e molto altro nel lavoro di Pezzetti. Complessivamente, secondo i dati del Cdec, dall'Italia venne deportato circa un quinto degli ebrei residenti: poco meno di 7.800 - cui vanno aggiunti 1.819 ebrei dei possedimenti italiani del Dodecanneso. Solo 837 sono tornati. Il libro della Shoah italiana è un doveroso tributo alla memoria di quanti non ce l'hanno fatta e un monito per il futuro.
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
Una pistola a disposizione ma Liliana Segre scelse di non diventare come il proprio carnefice
La bambina che non volle uccidere il comandante di Auschwitz
di Giulia Galeotti
Alle cronache che raccontano di adolescenze sempre più vuote e violente, è bello rispondere, in occasione della giornata della memoria, ricordando i tanti giovani che, nei modi più diversi, si opposero al nazismo. Tra le vicende che la storia ha documentato, v'è quella di Liliana Segre, che abbiamo personalmente ascoltato qualche anno fa, narrata dalla stessa protagonista con voce ferma e calda, appassionata ma serena.
Liliana, nata in una famiglia ebrea non praticante, ha tredici anni quando viene portata a forza sul binario 21 della stazione centrale di Milano, divenendo improvvisamente "vecchia, sola, triste e disperata". Sono seicentocinque i deportati sul convoglio che quella notte parte per la Germania, destinazione Auschwitz-Birkenau. Cinquecentottantacinque di loro evaporeranno nei lunghi camini, compreso Alberto, l'uomo che stringe la mano della bambina. Suo padre.
Nel racconto - divenuto un libro, Sopravvissuta ad Auschwitz, scritto con Emanuela Zuccalà, edizioni Paoline 2005 - Liliana rivive molti aspetti di quella drammatica esperienza. Colpisce, ad esempio, lo shock e l'impotenza del pudore violato. "Di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda assieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c'è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude". Tra le altre cose, "era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l'ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione già di per sé terribile".
Sopravvissuta a diverse selezioni, nel gennaio 1945 Liliana fa parte di quel corteo di fantasmi che i nazisti hanno fatto camminare di notte di lager in lager - la marcia della morte - nel patetico tentativo di nasconderli agli occhi del mondo. Sebbene malata e nei suoi trentadue chili, la ragazzina sopravvive anche a questa prova: liberata nel circondario di Ravensbrück il 1° maggio, quattro mesi dopo torna a Milano. Ma nulla sarà facile nemmeno qui: è durissima, dopo l'infezione, la convalescenza del corpo e dell'anima, la convalescenza senza la quale non si è in grado di affrontare l'enormità di un letto comodo, di una tavola apparecchiata, di un bagno caldo, degli sguardi umani che, pur non capendoti più, si posano su di te.
Colpisce davvero il modo pacato con cui Liliana riesce a parlare di argomenti così tremendi. Colpisce l'assenza di odio, l'amore per la vita che pervade anche le scene più atroci senza mai cadere nella retorica, la sua capacità di cogliere segni di speranza, bagliori di vita, anche nei luoghi in cui la morte si fa più assurda e selvaggia. Non c'è spazio per la disperazione nelle sue parole, v'è, invece, un'enorme fiducia nella vita, e nella forza di resistenza dell'umanità di fronte al male. "Scelsi una piccola stella nel cielo, e mi identificai con lei. Io non ero ad Auschwitz: mi ero fusa con quella stellina e pensavo: io sono quella stellina. Finché brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva, lei continuerà a brillare".
Ma il momento in cui questa ragazzina attua davvero la sua resistenza al male è quando sceglie di non essere una bestia, ma una persona umana. È il momento in cui Liliana decide di dare un senso a quel numero 75.190 che le è stato tatuato, e che mai si cancellerà perché ormai è parte di lei. "Il comandante dell'ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me (...), si spogliò, rimase in mutande, si rivestì da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero ancora uno Stück, un pezzo. Quando buttò la pistola ai miei piedi, con tutto l'odio che avevo dentro di me e la violenza subita che mi invadeva il corpo, io pensai per un istante: "Adesso mi chino, prendo la pistola e, in questa confusione assoluta, lo ammazzo". Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l'azione giusta, nel momento giusto; il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone. Ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita, che mi fece capire (...) che nella debolezza estrema che mi vinceva, la mia etica e l'amore che avevo ricevuto da bambina mi impedivano di diventare uguale a quell'uomo. Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno, e da allora fui libera".
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
Una mostra fotografica sui bimbi del ghetto di Lódz
«A vent'anni visiterò il nostro mondo splendente...»
di Silvia Guidi
Un bambino infagottato da un doppio strato di cappotti sorride verso l'obiettivo. Ha il volto scavato ma lo sguardo tranquillo; sullo sfondo ci sono cumuli di sacchi, sedie rotte e masserizie in mezzo alla strada. Il tempo per fare la valigia è poco e le cose da portare sono tante; solo la grande stella gialla degli Juden cucita sul risvolto della giacca fa capire di che tragedia si tratta. In altre immagini, ragazzine col fiocco con vestitini alla marinara posano nella foto di classe. L'ultima parvenza di normalità prima del lager.
Siamo alla vigilia della "soluzione finale": la grande retata del settembre 1942 pose fine a ogni speranza di salvezza. Ma le deportazioni erano iniziate già nel gennaio di quell'anno; fino al mese di maggio più di cinquantasettemila persone vennero stipate nei convogli ferroviari e portate via.
L'aspetto più strano della mostra "I bambini del ghetto di Lódz" (a Roma fino al 7 febbraio presso la Scuola Romana di Fotografia), è che in molte foto non c'è traccia di angoscia; i piccoli in calzoncini corti che fanno capriole nei campi di Marysin sembrano più preoccupati di non trovare i cuscinetti a sfera per giocare a biglie che consapevoli del loro destino.
Perché le foto scattate in una prigione a cielo aperto sono così operose, serene, "normali"? Ce lo svela Agnieszka Zakrzewicz, curatrice della mostra, spiegandoci i motivi dell'equivoco, sottilmente presente anche nell'immagine simbolo dell'iniziativa: un bambino seduto per terra, girato di spalle, che parla con il fratello, la sorella e la madre. "Nel clima di apparente normalità di questa scena c'era qualcosa che mi inquietava, che mi "pungeva"- scrive la Zakrzewicz - anche se riuscivo a darmi una spiegazione: la rete metallica che divideva il ghetto dal resto del mondo divideva anche il bambino dalla sua famiglia".
La spiegazione sta nella storia di quell'immagine. L'autore dello scatto, Mendel Grosman, insieme al collega fotografo Henryk Ross era ufficialmente impiegato nel reparto di statistica di Litzmannstadt (così i tedeschi chiamavano Lódz), un ufficio creato da Chaim Mordechai Rumkowski, capo del Judenrat, il decano del Consiglio del ghetto, l'unico autorizzato a trattare con le truppe occupanti. Molto materiale propagandistico veniva preparato per le autorità militari tedesche: foto e dossier dovevano provare l'utilità per il Reich del lavoro degli ebrei.
"È l'unica nostra via d'uscita" sosteneva Rumkowski. Alla fine del 1942 il ghetto si trasformò in un campo di lavoro, i cui profitti andavano direttamente a finanziare la campagna bellica di Hitler. Tutti erano obbligati a lavorare, anche i bambini di otto anni; solo chi aveva un lavoro riceveva i buoni per il cibo e aveva l'opportunità di sopravvivere. Per qualche mese ancora i bambini di Lódz hanno continuato a studiare, giocare, disegnare.
Forse avevano capito, forse continuavano a credere alle pietose bugie che continuavano a raccontare i grandi; resta comunque un insopprimibile bisogno di vita e di felicità nel sorriso fragile di Golda Laja Wilder - di cui resta il documento d'identità - e nei diari dei suoi coetanei: "Quando avrò vent'anni - scrive Abram Koplowicz, morto ad Auschwitz a 14 anni - visiterò il nostro mondo splendente, volerò, attraverserò mari e fiumi. Le nuvole saranno le mie sorelle, mio fratello il vento".
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
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