mercoledì 2 settembre 2009
Il pm e le telefonate del direttore Boffo (Sarzanini). Da leggere!
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IL CASO BOFFO - Il mistero sul documento anonimo spedito ai prelati
Il pm e le telefonate del direttore
Il pm indagò sui tabulati e si convinse che le chiamate erano state fatte dal giornalista
Fiorenza Sarzanini
La lettera anonima contro Dino Boffo spedita tre mesi fa ai vescovi italiani riferiva fatti e circostanze che non sono contenuti nel fascicolo del tribunale di Terni. Le carte ricostruiscono la vicenda che ha portato alla condanna per molestie del direttore di Avvenire.
Ma le stesse carte non entrano mai nei dettagli della vita privata di Dino Boffo. Tanto che non chiariscono nemmeno per quale motivo, con telefonate effettuate per quasi cinque mesi, avrebbe ingiuriato una ragazza che poi presentò denuncia ai carabinieri.
Documentano però la certezza, da parte di chi indagava, che fosse proprio lui l’autore di quelle chiamate e non — come adesso sostiene lo stesso Boffo — un suo collaboratore. L’esame dei contatti avvenuti subito prima e subito dopo le chiamate piene di insulti ricevute dalla donna avrebbe consentito di verificare che gli interlocutori avevano parlato personalmente con Boffo; dunque — hanno concluso gli inquirenti — in quei frangenti era lui ad utilizzare il cellulare.
La storia risale all’agosto del 2001. Le telefonate ingiuriose vanno avanti fino al gennaio 2002.
Nel suo esposto la ragazza precisa gli orari, racconta il contenuto, sottolinea come l’anonimo interlocutore faccia riferimento anche ai rapporti sessuali che la donna ha con il fidanzato. Viene acquisito il suo tabulato, si ricava il numero del chiamante. Si scopre così che il cellulare è intestato alla società che edita il quotidiano della Cei. Le ulteriori verifiche consentono di scoprire che l’apparecchio è stato concesso in uso al direttore. Boffo viene convocato al palazzo di Giustizia della città umbra per fornire chiarimenti. Non può negare che il telefono sia effettivamente suo, ma spiega di lasciarlo spesso incustodito. «E dunque — evidenzia — quelle telefonate può averle fatte chiunque». Una tesi che però non convince appieno i pubblici ministeri.
Anche perché lui stesso ammette di conoscere la ragazza.
«Ci siamo incontrati in occasione di un evento pubblico organizzato dalla Curia», afferma. E poi chiarisce che il tramite sarebbe stato il vescovo di Terni, monsignor Paglia. Si decide così di interrogare le persone che il giornalista ha contattato a ridosso delle chiamate fatte alla ragazza. Si tratta di quattro o cinque testimoni. Tra loro c’è il titolare di una libreria e soprattutto uno dei segretari della Cei che con Boffo ha contatti assidui. Nessuno ricorda di aver mai parlato su quell’utenza con qualcuno che non fosse il direttore di Avvenire.
Quindi i magistrati si convincono che possa essere lui l’autore delle molestie. L’iscrizione nel registro degli indagati, come risulta dagli atti processuali, avviene il 14 ottobre 2003. Sei mesi dopo, esattamente l’8 aprile 2004, il pubblico ministero chiede «l’emissione di un decreto di condanna». C’è un solo reato contestato, quello di molestie, per il quale si procede d’ufficio. L'accusa di ingiurie è infatti caduta perché la ragazza ha deciso di ritirare la querela. Nel fascicolo non vengono specificati i motivi di questa scelta.
I giudici ne prendono atto, Boffo non si oppone al decreto e paga l’ammenda di 516 euro che certifica la sua condanna.
Qui finisce la storia ricostruita dalle carte processuali. Ma proprio da qui comincia il mistero sul documento anonimo spedito ai vescovi e poi raccontato venerdì scorso da Il Giornale che l’aveva invece presentato come un atto giudiziario. La circostanza che si tratti di un appunto ufficiale, sia pur «riservato», sembra smentita dall’esame dello scritto che contiene numerosi errori di ortografia e di battitura. E anche circostanze false. Non è vero che «Boffo è stato querelato da una signora di Terni»: la denuncia era contro ignoti. Non è vero che «a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’Autorità giudiziaria si è constatato il reato»: per le molestie non è possibile disporre il controllo delle conversazioni. Viene poi specificato che «Boffo ha tacitato la parte offesa con un notevole risarcimento finanziario», ma è una circostanza che non risulta agli atti. Quanto alle inclinazioni sessuali dell’indagato, nel fascicolo non se ne fa mai cenno.
© Copyright Corriere della sera, 2 settembre 2009 consultabile online anche qui.
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1 commento:
Un telefono puo' venire usato da piu' persone.
Se io fossi il molestatore che ha usato il telefono di Boffo lo userei solamente per molestare: mica per chiamare poi con la stessa voce il segretario CEI ecc.
Quindi le testimonianze sono valide solo se in tempo ravvicinato.
Poi, la verita' non si sa mai. Si ha una verita' giudiziale: e mi pare sia stata accertata
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