venerdì 26 giugno 2009

In una mostra al Museo Pio Cristiano la memoria artistica di san Paolo in Vaticano (Ravasi)


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In una mostra al Museo Pio Cristiano la memoria artistica di san Paolo in Vaticano

Il traguardo sul filo di una spada

"Ho terminato la corsa, ho conservato la fede"

Si apre giovedì 25 giugno presso il Museo Pio Cristiano la mostra "San Paolo in Vaticano", un excursus artistico sulla figura e la parola dell'Apostolo delle genti nelle raccolte pontificie. Pubblichiamo due testi del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e (a destra) del direttore dei Musei Vaticani che interverranno all'inaugurazione.

di Gianfranco Ravasi

Recava la dicitura "Roma, 22-28 maggio 1968" e una nota lo definiva come un "abbozzo di sceneggiatura per un film su san Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)". Il quaderno, ripreso e rielaborato nel 1974, conteneva il progetto cinematografico che Pier Paolo Pasolini desiderava giustapporre, quasi in dittico, al suo Vangelo secondo Matteo (1964). Esso si basava su una riattualizzazione della figura dell'apostolo, la cui vicenda personale e spirituale sarebbe stata trasposta nelle nuove capitali del mondo e della cultura, New York, Londra, Parigi, Berlino, perché - continuava il regista-scrittore - "Paolo è qui, oggi, tra noi (...) È la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia". In quei fogli, pubblicati postumi da Einaudi nel 1977, sotto il titolo San Paolo, ovviamente non mancava Roma e il Vaticano.
Quel Vaticano che ora dedica un'importante e grandiosa mostra all'apostolo cittadino romano, ricomponendo il suo volto originario attraverso la memoria artistica, archeologica, storica e letteraria. Sono centoventiquattro oggetti, alcuni di straordinario impatto visivo, spirituale e culturale: si pensi, ad esempio, alla sontuosa esposizione di codici o testi che contengono quei 2003 versetti (su 5621 di tutto il Nuovo Testamento) che compongono il lascito teologico-letterario di Paolo, affidato al suo epistolario. Roma, d'altronde, era stata la meta di un lungo processo di avvicinamento, interiore e topografico. La Lettera ai romani, con la lunga lista finale di saluti presenti nel capitolo 15, scandiva questo legame prima ancora che si attuasse concretamente, mentre gli Atti degli apostoli delineavano le tappe dell'approdo geografico: da Pozzuoli "partimmo alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al foro di Appio e alle Tre Taverne (rispettivamente a 65 e 50 chilometri circa dalla capitale). Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per conto suo con un soldato di guardia" (28, 14-16).
Dove fosse ubicato questo domicilio coatto dell'apostolo è arduo decidere. La tradizione dominante ha optato per l'area ove oggi sorge la secentesca chiesa di San Paolo alla Regola, non lontano dall'attuale quartiere ebraico e dalla Sinagoga romana. Ma, proprio quest'anno, mentre registravo alcune puntate del programma televisivo Le frontiere dello spirito nella chiesa di Santa Maria in Via Lata sul Corso, mi si suggeriva che un'altra tradizione collocava proprio nei sotterranei di quel tempio la memoria delle fondazioni della residenza ove Paolo, agli arresti domiciliari in attesa del giudizio presso la suprema cassazione imperiale, "aveva trascorso due anni, accogliendo tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento" (Atti degli apostoli, 28, 30-31).
Ben diverso è il grado di certezza riguardo alla meta ultima dell'esistenza dell'apostolo. Già attorno al 95 nella sua Lettera ai Corinzi, Papa Clemente I menzionava esplicitamente il martirio delle due "colonne" della Chiesa Pietro e Paolo, proprio a Roma. Ma a indicarci il luogo esatto è un presbitero romano, Gaio, vissuto al tempo di Papa Zefirino (198-217), autore di un Dialogo col montanista Proclo, capo - quest'ultimo - di una setta eretica rigorista, detta dei Catafrigi, dal luogo (la Frigia) delle loro origini. Gaio, polemizzando con Proclo, celebrava il carattere unico e primaziale di Roma perché Pietro e Paolo avevano testimoniato col martirio in quella città la loro fede. E continuava dichiarando: "Io sono in grado di mostrare i trofei (cioè i monumenti funebri) degli apostoli: andando, infatti, al Vaticano o lungo la via Ostiense vi troverai i trofei di quelli che hanno fondato questa Chiesa".
Il Dialogo di Gaio è andato perduto, ma quel grande storico della Chiesa delle origini che fu Eusebio di Cesarea (265 circa-340) ha conservato la citazione di questo passo nella sua Storia ecclesiastica (ii, 25) ed è su quella scorta che sorse nei secoli successivi, proprio sulla tomba di Paolo, la grandiosa basilica ostiense, il cui attuale "trofeo" è idealmente rappresentato dal mirabile ciborio marmoreo che Arnolfo di Cambio eresse nel 1284 e che si conservò dopo il devastante incendio della notte tra il 15 e il 16 luglio 1823, che cancellò per buona parte la basilica paolina. In verità un'altra tradizione, com'è noto, ha voluto distinguere tra la tomba e il luogo del martirio dell'apostolo. Ed è per questo che i pellegrini si recano anche sulla via Laurentina, nella località ad Aquas Salvias, considerata la sede della decapitazione, con la suggestiva memoria leggendaria del triplice rimbalzo della testa di san Paolo, così da far sorgere quelle "Tre Fontane" che danno il nome all'abbazia trappista che oggi sorge su quel luogo circondato da un bosco di eucalipti, piantati dai monaci nel 1868.
Paolo, quindi, ha a Roma la sua ultima dimora terrena e l'estremo atto della sua esistenza storica, atto raffigurato in una scena scolpita in un sarcofago della metà del iv secolo, presente nella mostra vaticana. In questa che è la più antica rappresentazione del martirio dell'apostolo e che è stata scelta a emblema figurativo dell'esposizione, un soldato in atteggiamento aggressivo sfodera la spada davanti a un Paolo severo ma sereno, mentre il fitto intreccio di rami di due alberi inquadra la scena quasi in una sorta di "paradiso" vegetale. Ed è proprio contemplando questa raffigurazione che vorremmo riascoltare quel testamento finale che l'apostolo ci ha lasciato nella Seconda lettera a Timoteo, il fedele amico e collaboratore nativo di Listra di Licaonia (attuale Turchia centrale), di padre greco e di madre giudeo-cristiana. Quattro simboli riescono a riassumere autobiograficamente un'intera esistenza radicata e votata totalmente a quel Cristo che nelle lettere paoline è citato più di quattrocento volte e che è l'unica forza dell'apostolo: a margine notiamo che la statua colossale ottocentesca di san Paolo, posta in parallelo a quella di san Pietro nella piazza antistante la basilica vaticana, reca una curiosa scritta ebraica che - a nostro avviso (a differenza di un'improbabile decifrazione attestata) - è la versione un po' maldestra in ebraico della frase di Filippesi, 4, 13: "Tutto posso in colui che è la mia forza".
Ma ritorniamo al testamento di 2 Timoteo, 4, 6-8 e ai suoi quattro simboli illuminanti. Ecco il primo: "Io sto per essere versato in libagione". È l'immagine sacrificale del vino, dell'acqua e dell'olio che vengono fatti esalare su un braciere perché salgano come offerta a Dio. Il secondo simbolo è quello dell'analysis che può alludere alle vele sciolte per salpare verso il mare aperto e nuovi lidi oppure al levare le tende del nomade che si mette in marcia alla ricerca di nuovi orizzonti e di pascoli freschi: "Incombe ormai su di me il momento di sciogliere le vele". La terza figura è quella del soldato che "ha combattuto la bella/buona battaglia": spesso l'apostolo ha usato la metafora dell'armatura per indicare l'impegno del cristiano in un'esistenza giusta (si veda, ad esempio, Efesini, 6, 10-17). La quarta immagine è stata spesso evocata da Paolo: si tratta della corsa nello stadio che si conclude con la premiazione. "Ho terminato la corsa, ho conservato la fede" - in greco la frase è rimata: tòn dròmon tetèleka, tèn pìstin tetèreka - "ora mi rimane la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, in quel giorno mi consegnerà e non solo a me ma anche a tutti coloro che hanno amato la sua epifania". Lo sguardo si protende ormai oltre la storia e l'apostolo spia già l'orizzonte per veder sorgere l'alba dell'"epifania" del Signore, che suggellerà la sua vicenda personale e quella di tutta la storia.

(©L'Osservatore Romano - 26 giugno 2009)

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