sabato 21 novembre 2009

Anno Sacerdotale, le benedettine di Grandate: Una lettura dell'Anno sacerdotale. All'Aquila l'esperienza nel convento delle agostiniane (O.R.)


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Nella Giornata pro orantibus l'occasione per aiutare i monasteri più poveri

Claustrali e sacerdoti speciale legame spirituale

La Giornata pro orantibus costituisce anche l'occasione per dare un aiuto concreto ai monasteri più poveri. Il Segretariato assistenza monache (via della Conciliazione, 34, 00193 Roma; assistenza.monache@ccscrlife.va) in stretto rapporto con la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica si occupa del sostegno delle monache bisognose di cure e delle comunità claustrali che non hanno sufficienti mezzi di sostentamento.
Secondo le ultime statistiche disponibili i monasteri nei cinque continenti sono 545 e accolgono 6.950 monache appartenenti a 35 ordini e congregazioni femminili, alcune delle quali in via di estinzione. Negli ultimi venti anni si registra tuttavia una crescente ripresa della domanda per entrare nella vita claustrale.
Le suore e i monasteri, interpellati dal nostro giornale in occasione della Giornata pro orantibus, hanno voluto associare la ricorrenza all'Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI.

(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)

Le benedettine di Grandate (Como)

Una lettura dell'Anno sacerdotale

La giornata di preghiera "per coloro che pregano" quest'anno acquista una luce particolare, perché si celebra nel corso di un anno che Benedetto XVI ha voluto dedicato ai sacerdoti.
Come monache benedettine del Santissimo Sacramento, sentiamo con intensità il dono di questo Anno sacerdotale, perché per la fondatrice, madre Mectilde de Bar, monaca lorenese vissuta nel XVII secolo, il ministero sacerdotale e la nostra vocazione monastica sono un differente ma complementare modo di partecipare al mistero dell'Eucaristia: il sacerdote come sacerdote e noi come ostie, vite unite a Cristo che si offre per la vita del mondo (cfr. Prefazione alle Costituzioni delle Benedettine del Santissimo Sacramento del 1677).
Il Papa nella lettera di indizione per l'Anno sacerdotale citava lo stupore che san Giovanni Maria Vianney manifestava parlando del sacerdozio, "come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: "Oh, come il prete è grande [... ]. Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia"".
Madre Mectilde, come il curato d'Ars, aveva una grandissima stima per i sacerdoti, che, secondo lei, "si possono dire in qualche modo "i padri di Gesù Cristo" nella S. Eucaristia, perché essi hanno ricevuto da Dio il potere di renderlo presente sotto le specie del pane e del vino".
Come l'Eucaristia è fonte e culmine della vita di tutta la Chiesa, così è certamente anche il cardine del ministero sacerdotale. Di pari passo con il celebrare l'Eucaristia viene "l'essere Eucaristia", l'essere una cosa sola con Cristo che si offre al Padre per la vita del mondo.
Già l'autore della Lettera agli Ebrei aveva disposto uno straordinario piano di rilettura del culto e del sacerdozio dell'antica alleanza, mostrando in Cristo il nuovo e vero sacerdote che non offriva a Dio cose, ma offriva se stesso. L'autore "dichiara che Gesù è "mediatore di un'alleanza nuova" (Lettera agli Ebrei, 9, 15). Lo è diventato grazie al suo sangue o, più esattamente, grazie al dono di se stesso, che dà pieno valore allo spargimento del suo sangue. Sulla croce, Gesù è al tempo stesso vittima e sacerdote: vittima degna di Dio perché senza macchia, sommo sacerdote che offre se stesso, sotto l'impulso dello Spirito Santo, e intercede per l'intera umanità".
Di questo sacerdozio nuovo di Cristo i sacerdoti ordinati sono partecipi in modo del tutto particolare, ma anche i fedeli laici nel Battesimo sono inseriti nel popolo sacerdotale della nuova alleanza. È proprio grazie a questo nostro essere "stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio si è acquistato" (1 Lettera di Pietro, 2, 9) che possiamo partecipare alla Pasqua di Cristo nell'Eucaristia, venendo così abilitati a vivere il sacerdozio comune offrendo noi stessi come "sacrificio vivente santo gradito a Dio" (Lettera ai Romani, 12, 1).
Forse può sembrare che una lettura del sacerdozio a partire solo dall'angolatura dell'Eucaristia quale sacrificio della nuova alleanza, sia troppo riduttiva, perché il sacerdote è mandato anche come annunciatore della Parola ed è costituito pastore della comunità che gli è affidata.
Anche ciascuno di noi, battezzato in Cristo, è configurato non solo al Suo sacerdozio, ma pure al suo essere profeta e re. Con i sacramenti dell'iniziazione cristiana siamo infatti uniti, consacrati in Lui che è il Messia, l'unto per eccellenza. Dalla Bibbia sappiamo che la regalità in Israele era considerata non solo una forma di governo politico, ma, a partire da Davide che fu preso dagli ovili delle pecore e posto a pascere il popolo del Signore, il re era colui che guidava e si prendeva cura del popolo come un pastore fa col suo gregge. Ebbene il Vangelo di Giovanni ci presenta Gesù - pastore come colui che non solo pasce, ma "offre la sua vita per le pecore" (Giovanni, 10, 11).
In fondo, il "potere" che è dato ai sacerdoti di rendere presente Cristo nel suo corpo e nel suo sangue, sussiste solo nell'immensa libertà che l'amore ha dato a Gesù, quella libertà che è il potere di offrire la propria vita: "Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo" (Giovanni, 10, 18).
In Cristo tutto è ricondotto a unità. Anche il ministero profetico, l'annunciare la Parola di Dio, non è una attività parallela al sacerdozio cultuale, ma diventa esso stesso culto.
La comunione Eucaristica è infatti il modo che Dio ha scelto per farsi carne nella vita di ogni cristiano. "Egli non poteva incarnarsi in tutti gli uomini, ma per mezzo della Santa Comunione comunica loro la grazia della sua incarnazione" (Madre Mectilde de Bar, Pensieri sulla riparazione).

(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)

All'Aquila l'esperienza nel convento delle agostiniane

Divise dal terremoto

L'esperienza monastica agostiniana a Sant'Amico, - racconta madre Gabriella - ha sfidato i secoli (1375-2009) e continua a vivere attraverso noi che seguiamo le orme di sant'Agostino osservando la regola da lui tracciata: vita comune, rapporti d'amicizia sincera, condivisione dei beni, lavoro, il tutto racchiuso nell'unità di mente e di cuore in un impegno di vita protesa verso Dio.
Con questa tensione spirituale ci stavamo preparando a vivere la settimana santa anche con un ritiro spirituale che ci avrebbe meglio introdotto a riflettere sulla passione del Signore Gesù. La domenica delle Palme era stata celebrata insieme al popolo. Ma la notte tra domenica e lunedì un violento terremoto ha scosso L'Aquila e dintorni causando distruzione e morte.
Il nostro monastero è stato gravemente danneggiato, sono crollati tanti tramezzi, alcune colonne portanti si sono incrinate, la chiesa ha subito danni, ma la comunità insieme al padre venuto per il ritiro spirituale si è salvata.
Lo smarrimento durante la notte del sisma ci ha colte in modo diverso e le continue scosse ci hanno tenute sveglie, perché alcune sorelle non erano in grado di muoversi e, dato che era buio e freddo, abbiamo atteso l'alba recitando il rosario prima di prendere decisioni.
Nel frattempo la madre preside ha contattato per noi la Protezione civile che ci ha consigliato di trasferire almeno le monache malate e anziane, così verso la sera di quel giorno, otto sorelle, con l'aiuto dei mezzi della Misericordia di Firenze, sono partite per il monastero agostiniano di Cascia.
La terra continuava a tremare e noi ci siamo chieste se fosse prudente restare.
E così altre quattro sorelle vennero ospitate dal monastero dei Santi Quattro Coronati a Roma, mentre la madre e una sorella sono rimaste all'Aquila, ospiti della tendopoli di Piazza D'Armi, vegliando come hanno potuto sul monastero, situato nella zona rossa della città. Ogni tanto, accompagnate dai vigili, rientravano nel monastero per recuperare indumenti per le sorelle. Abbiamo cercato di proseguire la vita di preghiera in modo normale. Per questo si è provveduto a sistemare un piccolo locale presso il monastero come cappella dove si svolgono gli atti comuni, la preghiera e si celebra la santa messa. Questa situazione è andata avanti per quasi due mesi, poi, grazie all'interessamento di un nostro padre agostiniano e dell'associazione Amici di Sant'Agostino, è stata costruita una casa di legno nel giardino e così, prima in tre, poi in cinque, ci siamo sistemate dentro le mura del monastero provvisorio.
È da sottolineare l'atmosfera che regnava nella casa specialmente alla sera: per il fatto che eravamo le uniche che dormivano nella zona rossa, ci circondava un silenzio completo. Noi tre ci sentivamo un po' timorose, ma siamo rimaste contente di questa nuova esperienza: potevamo di nuovo chiudere una porta e avere dei servizi. Le altre sorelle sono ancora ospiti dei monasteri che le hanno accolte e vi resteranno finché non verranno fatti i lavori che ci permetteranno di ricomporre la comunità in Sant'Amico.
Per noi, accampate nella casa di legno, sono cominciate giornate pesanti, per sgombrare i luoghi disastrati. In questo lavoro, iniziato da sole, ci sono stati di valido aiuto gli scout, venuti da varie parti d'Italia, e un gruppo di seminaristi guidati dal loro sacerdote. Con tutti gli operai in casa, è certamente difficile conservare il raccoglimento della clausura. Anche se noi cerchiamo di farlo nel miglior modo possibile, dobbiamo lasciare spesso aperte le porte ai lavoratori e accettare la presenza dei giovani, che ci aiutano a portare e spostare dei pesi. Anche i giorni di ritiro non si potranno fare in modo pienamente soddisfacente.
Da tutte queste difficoltà abbiamo tirato fuori un insegnamento spirituale: in quella notte in cui è successo il terremoto, si è spezzata una colonna in tre pezzi, il tabernacolo è andato a sbattere contro la porta d'ingresso della cappellina e la statua della Madonna di Fátima, pervenuta proprio da Fátima, è andata in frantumi e la madre stessa si è salvata a stento. Però in quel momento in cui è successo di tutto, il nostro sentimento è stato di abbandono al Signore e ora siamo grate che, nonostante la distruzione, siamo salve tutte quante. E poi abbiamo pensato "abbiamo perduto tutto, ma il Signore ci ha dato tutto, persino ci ha salvato la vita". Abbiamo capito che la sicurezza della vita non è per le cose che si possiedono, ma la sicurezza è Dio. Quindi il primo valore è Dio. Può darsi che noi, durante la nostra vita, non abbiamo messo Dio sempre al primo posto. Il Signore adesso ci ha fatto capire, che Lui deve stare al primo posto e tutte le cose sono relative.

(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)

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