venerdì 20 novembre 2009

Il Primate anglicano, Rowan Williams: L'ecumenismo è un bicchiere mezzo pieno (Osservatore Romano)


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L'ecumenismo è un bicchiere mezzo pieno

Alla Pontificia Università Gregoriana si è svolto il 19 novembre un convegno per ricordare la figura e l'opera del cardinale Johannes Willebrands nel centenario della nascita. Pubblichiamo stralci della testimonianza rilasciata dall'arcivescovo di Canterbury.

di Rowan Williams

A partire dal concilio Vaticano ii negli anni Sessanta la Chiesa cattolica si è impegnata in molti dialoghi con altre Chiese, inclusa la Comunione anglicana, che hanno prodotto un numero considerevole di dichiarazioni concordate. Questa eredità è stata raccolta in una recente pubblicazione del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, il cui primo presidente, durante e dopo il concilio Vaticano ii, il cardinale Johannes Willebrands, viene giustamente e gioiosamente celebrato nell'odierna conferenza in occasione del centenario della sua nascita.
La forte convergenza in questi accordi su cosa è veramente la Chiesa di Dio è impressionante. Le varie dichiarazioni concordate sottolineano che la Chiesa è una comunità, nella quale gli esseri umani sono resi figli e figlie di Dio e sono riconciliati sia con Dio sia fra di loro. La Chiesa celebra questo attraverso i sacramenti del Battesimo e della Santa Comunione, in cui Dio agisce su di noi per trasformarci "in comunione". Questioni più dettagliate sul ministero ordinato e altri temi sono stati inquadrati in questo contesto.
Uno degli aspetti più affascinanti dei diari scritti durante il concilio Vaticano ii da figure come Willebrands e Congar è il racconto di una lotta per ciò che io chiamerò una dottrina autenticamente teologica della Chiesa. Parte di quanto il Vaticano ii ha rifiutato è un modo di parlare della Chiesa come soprattutto di un'istituzione esistente per decreto divino, governata per prescrizione del Signore, che amministra fedelmente i sacramenti istituiti da Lui per la salvezza delle anime. Tuttavia, ciò che manca a questa descrizione è una spiegazione reale di come la natura, il carattere e perfino il governo della Chiesa siano basati e plasmati sulla natura di Dio e della incarnazione di Dio nella storia. Un'interpretazione teologica della Chiesa servirebbe a spiegare questo nesso.
Una caratteristica peculiare dell'attuale documento Harvesting the Fruits del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, sotto l'egida del nostro amatissimo e rispettato amico Walter Kasper, è il nesso integrale fra ciò viene detto sulla natura di Dio e ciò che viene detto sulla Chiesa, sulla sua missione e sul suo ministero.
Se il documento Harvesting deve essere preso sul serio, le questioni fra cristiani nelle Chiese storiche non riguardano la forma essenziale del nostro linguaggio su Dio e sull'azione di Dio in Cristo. Il centro comune è una visione duplice: relazione filiale con Dio, il Padre, come realizzazione della vocazione umana e, come corollario immediato di questo, comunione con altri credenti, offerta a tutto il mondo come promessa e speranza, modello di convivenza umana in accordo con il proposito amorevole del Creatore. Poiché le dichiarazioni ecumeniche concordano pur nel variare delle parole, il dibattito in corso non riguarda queste cose fondamentali, ma dove la realizzazione più piena della comunione debba trovarsi.
Perfino nel dibattito sulle forme e le dottrine sacramentali è evidente una forte convergenza che ci porta ben oltre qualsiasi stanca polarità. I nessi derivanti dalla dottrina trinitaria direttamente attraverso il significato dell'Eucaristia sono fortemente affermati da tutte le parti. Tutto il dibattito sulla vita sacramentale si incentra sul modo in cui un credente viene messo in comunione filiale attraverso l'atto del Dio Uno e Trino: è quasi scontato che al di fuori del gregge romano vi sia un'ambiguità su questa priorità dell'atto divino o una separazione fra l'atto di Dio nella salvezza e un'attività puramente o predominantemente umana di ricordare o di esprimere quell'atto attraverso pratiche umane.
Per quanto riguarda l'autorità: il sunto di Harvesting (pp. 137-138) spiega molto bene, descrivendo la convergenza sul credo che "il ministero e i ministeri nella Chiesa non sono doni fini a se stessi". La Chiesa è chiamata all'obbedienza e, quindi, a discernere il mantenimento del Vangelo autentico nel suo insegnamento e nella sua predicazione. Tuttavia, sono quell'obbedienza, quel discernimento e quel mantenimento, in un certo senso, il compito dell'intero corpo dei battezzati o essenzialmente quello di un gruppo designato ad avere un potere vincolante?
Il problema è, dunque, trovare modi per creare strutture in cui l'autorità ordinata e la collaborazione conciliare siano appropriatamente affidabili fra loro e con l'intero corpo. Questo riguarda il modo in cui cerchiamo, per lo meno, strumenti congiunti di decisionalità fra Chiese ordinate differentemente nei loro sistemi di autorità, come propongono vari documenti ecumenici (non da ultimi i documenti dell'International Anglican Roman Catholic Commission for Unity and Mission) e, soprattutto, uno strumento che renda possibile lo scambio di ministeri e di norme sacramentali (con tutto ciò che questo potrebbe comportare in termini di requisiti per il semplice riconoscimento canonico e l'incorporazione).
Per quanto riguarda il primato: la convergenza è probabilmente meno chiara qui, ma esiste un riconoscimento piuttosto diffuso del fatto che, proprio come il ministero locale è al servizio della coesione e dell'apertura reciproca nella congregazione, così esiste una forte motivazione teologica per un ministero universale di concentrazione e riunione negli stessi termini.
Per spiegarlo ancora una volta e vederlo in relazione soprattutto con il proposito della Chiesa: si tratta di un ministero che esiste per il bene della santità filiale e comunitaria mantenuta in un modello universale di servizio reciproco, un punto degno di essere preso molto seriamente nel contesto di una cultura globalizzata.
È di certo impossibile affrontare queste problematiche senza fare un breve riferimento a questioni di interesse molto immediato nella vita delle comunioni anglicana e cattolica romana. Le proposte attuali di un'alleanza fra provincie anglicane è uno sforzo per creare non un esecutivo decisionale centralizzato, ma una "comunità di comunità" che possa riuscire a sostenere una vita reciprocamente arricchente e critica, in cui tutti aderiscano a certi protocolli decisionali insieme. Come osserva Harvesting, gli anglicani sono stati sfidati a dare più sostanza alla propria retorica sulla comunione attraverso le crisi e le controversie degli ultimi anni e questo fa semplicemente parte di una risposta variegata che, senza dubbio, continuerà per un bel po' sebbene raffinata e formulata. L'annuncio recente di una Costituzione Apostolica contenente norme per gli ex anglicani mostra alcuni segni del riconoscimento del fatto che la diversità di etica non compromette di per sé l'unità della Chiesa cattolica, perfino entro i limiti dello storico patriarcato occidentale. Tuttavia dovrebbe essere ovvio che non cerca di fare ciò che abbiamo delineato: non si basa su alcun riconoscimento formale né di ministeri esistenti né di unità di supervisione né su metodi di decisionalità indipendente, ma rimane al livello di cultura liturgica e spirituale, come potremmo dire. In quanto tale, è una risposta pastorale ingegnosa alle necessità di alcuni, ma non è una innovazione ecclesiologica. Resta da vedere se la flessibilità suggerita nella Costituzione potrà mai portare a qualcosa di meno simile a una "cappellania" e di più simile a una Chiesa intorno a un vescovo.
Tutto ciò che ho tentato di dire qui è che il bicchiere ecumenico è autenticamente mezzo pieno e poi mi sono interrogato sul carattere della questione non risolta fra noi. Per molti di noi che non sono cattolici, la domanda che vogliamo porre, in spirito fraterno e grato, è se tale questione non risolta è fondamentalmente un elemento di divisione ecclesiale come i nostri amici cattolici generalmente sembrano presupporre e sostenere. Se non lo è, possiamo tutti permetterci di raccogliere la sfida ad affrontare questioni eccezionali con gli stessi presupposti metodologici e la stessa visione sacramentale e spirituale generale che ci ha condotto fin qui?

(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)

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