sabato 23 maggio 2009

Il Papa in Terra Santa: Una luce oltre il muro (Casadei)


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Una luce oltre il muro

Passaggio a Betania, Gerusalemme, dove da venticinque anni una donna cristiana difende con le unghie e coi denti i suoi reietti, decine di orfani trasformati in “figli” felici dalla «potenza della vita»

di Rodolfo Casadei

Da Gerusalemme

Insieme alla casa di Pietro a Cafarnao, era qui, a Betania, nel paese dove abitavano Lazzaro, Marta e Maria, il centro affettivo di Gesù. Oggi il villaggio di case bianche, sul pendio del Monte degli ulivi, sta per essere isolato dal muro.
Quel muro che Benedetto XVI si è augurato di vedere presto smantellato: «Anche se i muri possono essere facilmente costruiti noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti».
Non è un facile richiamo alla retorica pacifista. Il Papa sa bene quali sono le circostanze che hanno spinto le autorità israeliane a ricorrere alla drastica decisione di elevare una barriera di separazione tra i due popoli. L’islamismo suicida (dopo la costruzione del muro praticamente azzerato) che si infiltrava nei bar, sugli autobus, nelle scuole, facendo strage di cittadini inermi. Per questo l’accorato appello del Pontefice è realistico. «Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!». Non a caso, proprio al campo profughi di Aida, a Betlemme, Benedetto XVI ha spiegato che «da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia». Occorre «contrastare il bisogno di vendetta». Ci vuole «magnanimità per ricercare la riconciliazione». «La storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni. (…) Se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative». In questa tensione tra parti recalcitranti a concedersi atti di magnanimità e fiducia, le anfore di coccio sono le persone come lei, Samar Sahhar, cristiana di Betania. Che fedele al mandato che il Papa ha rinnovato ai cristiani di Israele e Palestina («Siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane»), da venticinque anni dedica interamente la vita ai figli abbandonati e alle donne reiette. Purtroppo, nella cittadina dove questa grande donna ha piantato il suo orfanotrofio, la Lazarus Home, sono rimaste ormai solo 11 famiglie cristiane immerse in 30 mila anime di palestinesi musulmani.

Ci si mette pure Hamas

Tornasse oggi a Betania (ora El Azareya), Cristo non troverebbe il posto tranquillo dove andava quando aveva bisogno di riposare. La via che arriva da Gerusalemme è il tipico caravanserraglio arabo, con negozietti di ogni tipo che danno sulla strada e il traffico caotico. Più su, verso la collina dove la tomba di Lazzaro e la relativa chiesa sono circondate di moderni palazzi, la pace dei luoghi è turbata dai lavori per l’avanzata del muro che sta segando in due anche questa località, incluse parecchie proprietà. Per esempio il bel giardino della casa delle suore comboniane e il bosco dell’adiacente convento dei padri passionisti. L’atmosfera politica non è più rilassata. Di recente in Consiglio comunale si è discusso dell’opportunità di costruire un ospedale: a Betania come nella vicina Abu Dies non ce ne sono, e i residenti non possono utilizzare quelli di Gerusalemme in quanto “palestinesi di zona C” (una zona dove ordine e sicurezza sono di competenza israeliana mentre l’amministrazione civile dipende dall’Autorità nazionale palestinese). Dunque per cure ospedaliere in strutture pubbliche devono attraversare il muro e andare nei territori amministrati dall’Anp. Ma del progetto che renderebbe la vita più facile agli abitanti non se ne farà nulla. I militanti di Hamas, infatti, hanno avvertito il sindaco, uomo di al Fatah: «La nostra gente deve continuare a sfidare i soldati israeliani alla barriera, non bisogna far scendere la tensione». Insomma, la logica del tanto peggio, tanto meglio. Imposta con minacce molto convincenti.
Sarebbe interessante capire chi ha messo in giro la voce che anche i cristiani alle elezioni del 2006 hanno votato Hamas, per punire la corruzione e l’inconcludenza di al Fatah. «Queste sono idiozie di giornalisti che scrivono stando chiusi dentro gli alberghi», si arrabbia Sobhy Makhoul, diacono dell’esarcato maronita di Gerusalemme e cittadino israeliano. Qualche caso c’è stato sicuramente, come quello della nipote dei fondatori cristiani dell’università palestinese (oggi statale) di Ramallah. Ma si tratta di casi isolati. I cristiani continuano a soffrire la deriva fondamentalista della società palestinese maggioritariamente musulmana. Da Gaza giunge notizia che gli ultraestremisti di Jaish al Islam, Jaish al Umma e dei Comitati popolari di resistenza, fra i quali si trovano gli assassini del pastore protestante Rami Khader ucciso nel 2007, hanno cominciato a chiedere ai 3 mila cristiani della regione di pagare la jizah, la tassa di sottomissione dei dhimmi ai musulmani. Hamas condanna verbalmente tutto questo, ma si guarda bene dal reprimere con efficacia il fenomeno. D’altra parte l’unica docente cristiana di un’università di Gaza egemonizzata da Hamas qualche tempo fa è scomparsa dalla circolazione per alcuni giorni. È riapparsa in un filmato in cui indossava il velo islamico e annunciava di essere diventata musulmana, lasciando increduli tutti i cristiani che la conoscevano come una praticante molto pia. Per non parlare delle bande criminali che sfruttano la prostituzione a Betlemme: le loro prede preferite sono le adolescenti cristiane orfane di padre. Sanno bene i guai che incontrerebbero se osassero traviare ragazze musulmane, e quindi concentrano l’attenzione sui soggetti più deboli e indifesi della società.

Esistenze ricostruite

Samar ci mostra le sue 31 “figlie”, fra i 3 e i 15 anni di età, che ospita e accudisce insieme a quattro “mamme”, tutte musulmane. Ci parla dell’ambulatorio ginecologico e pediatrico che ha aperto insieme alle suore comboniane, della panetteria-pizzeria che ha avviato e dato in gestione per finanziare la Lazarus Home, del programma di protezione per donne costrette a fuggire dal marito o dalla famiglia per i motivi più tremendi. I quattro quinti degli orfani sono il risultato di divorzi seguiti da un nuovo matrimonio: le seconde mogli non accettano i figli che l’uomo (al quale nel diritto islamico spetta inderogabilmente la custodia dei figli in caso di divorzio) ha avuto dall’altra donna, e l’istituto diventa la destinazione obbligata degli sfortunati bambini. Il resto degli orfani è rappresentato da casi penosi o raccapriccianti. Rouba, 15 anni in un corpo esile come una foglia, intona con voce struggente le canzoni di Fitoussi, la famosa cantante libanese. I genitori le hanno ustionato i piedi e il ventre, una sua sorella è stata violentata dal padre e ora vive in una comunità segreta dopo essere stata qui alla Lazarus Home per alcuni anni. Il genitore è venuto più volte a cercarla, ogni volta minacciando di morte Samar, che senza l’aiuto di nessuno l’ha respinto come una leonessa. Rania è la più piccola della casa coi suoi tre anni: ride come un frugolino con la sua bocca sdentata. Ultima di otto figli, è stata gettata sulla strada da un’auto in corsa. Non si riesce a credere che sia diventata la bambina più contenta di tutta la casa. «Le cose più belle della mia vita sono venute da mio padre e da don Luigi Giussani», dice in italiano Samar, che è una laica consacrata dei Memores Domini di Comunione e liberazione. «Mio padre mi raccontava sempre la favola di san Giuseppe che portava ogni giorno a Gesù bambino un piccolo regalo. Il giorno che non l’ha portato, in casa hanno pianto tutti: Gesù, Giuseppe e Maria. Da allora ho deciso di portare regali a Gesù ogni giorno della mia vita».

© Copyright Tempi, 19 maggio 2009

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