venerdì 21 agosto 2009
Il naturalismo cristiano di Caravaggio: L'eloquenza del corpo (Timothy Verdon)
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Il naturalismo cristiano di Caravaggio
L'eloquenza del corpo
di Timothy Verdon
A pochi mesi dall'inizio del quarto centenario della morte di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, può essere utile riflettere su questo peintre maudit - come viene spesso presentato - dal punto di vista della fede e specificamente in termini dell'uso cristiano del corpo come soggetto nell'arte del maestro lombardo.
Ma prima bisogna situare Caravaggio in rapporto all'arte del suo tempo.
Come tutti sanno, la ricchezza semantica del corpo così come raffigurato nel Quattrocento italiano era stata notevolmente accresciuta nell'arte del primo Cinquecento, causa un più articolato rapporto con la scultura antica e una nuova erudizione umanistica - basti pensare agli ignudi michelangioleschi della volta della Sistina o all'eroica corporatura dei personaggi raffigurati nel Giudizio Universale della stessa cappella.
Ma al dato naturalistico già carico in opere del primo rinascimento, Michelangelo e altri aggiungevano un nuovo coefficiente d'idealità, sostituendo alla Natura naturans del Quattrocento l'idea di una Natura naturata - un universo naturale giunto allo stadio definitivo e libero da imperfezioni - di cui il corpo umano sarà l'eloquente emblema. Nella logica classicista del nuovo stile, poi, il corpo idealizzato veicola al contempo ricordi e speranze, offrendosi come luogo d'incontro tra la storia e l'èschaton, tra la grecità e il regno dei cieli.
L'affascinante idealismo del rinascimento maturo celava tuttavia un rischio: quello di perdere contatto con la realtà dei soggetti raffigurati. È questo il senso dell'epitaffio stilato da un coevo umanista per la sepoltura di Raffaello Sanzio nel Pantheon a Roma: Ille hic est Raphael. Timuit quo sospite vinci rerum Magna Parens, et moriente mori - "Qui giace Raffaello. Mentre era in vita, la Gran Madre delle cose (la Natura) temeva di essere vinta; ora che è morto, teme di morire pure essa". Vivente Raffaello, cioè, la stessa Natura non riusciva a rivaleggiare il suo "naturalismo perfezionato", ma dopo la morte dell'artista nel 1520 il processo di idealizzazione da lui e da altri avviato s'andava sempre più dissociando dal dato naturale, preferendo l'artifizio. Nell'ambito della rappresentazione del corpo, i decenni che seguono la morte di Raffaello infatti privilegiano le bizzarre deformazioni di pose e proporzioni note complessivamente col nome di "manierismo".
Tuttavia la maniera non durò a lungo. Già alla fine del Cinque e ai primi del Seicento l'esigenza della Riforma cattolica di un'arte sacra verosimile suscita reazioni contro gli eccessi del manierismo, dando nuova importanza al corpo realisticamente raffigurato. Un esempio istruttivo è il Cristo della Flagellazione eseguita nel 1607 - o forse 1610 - per una cappella di San Domenico Maggiore a Napoli, dove emerge con assoluta chiarezza l'enfasi patetica che il corpo era di nuovo chiamato a comunicare.
L'autore dell'opera, Caravaggio, s'ispira a una raffigurazione manierista del soggetto, un affresco di novant'anni prima in San Pietro in Montorio a Roma, di mano di Sebastiano del Piombo, ma ne semplifica numerosi elementi al fine di focalizzare l'attenzione sul corpo torturato del Salvatore.
L'ambiente aulico dell'originale, con cinque colonne, diventa ora uno spazio indefinito con una sola colonna al centro, quella a cui Cristo era legato; nello stesso spirito di semplificazione, la calcolata coreografia di pose complementari nei personaggi dell'originale diventa ora un'episodicità inelegante ma convincente, e l'illuminazione "a giorno" dell'affresco di Sebastiano diventa fitta penombra da cui emergono solo i corpi degli aguzzini e di Cristo, che nel loro interagire s'impongono come unico vero soggetto dell'immagine.
Ora la Flagellazione caravaggesca misura 286x213 centimetri e ha personaggi alti più di due metri. Si tratta di una pala d'altare, e l'impatto di questi grandi corpi sui fedeli presenti alla messa doveva essere drammatico, come anche la cruda violenza del soggetto in un contesto rituale: Caravaggio infatti enfatizza l'involontaria reazione psicofisica del Salvatore, il cui corpo esegue una strana danza sotto faretti da palcoscenico. È impossibile non sentirsi spinti verso una compartecipazione viscerale, e l'assenza di riferimenti ambientali, a parte la colonna a cui Cristo è legato, facilita questa immedesimazione con l'agonia del Salvatore.
Perno emotivo e compositivo dell'immagine è il bellissimo corpo di Cristo, aristocraticamente bianco e con proporzioni che lo distinguono dai corpi abbrutiti degli aguzzini. Nonostante l'apparente naturalismo, questo corpo, di fatto, rimanda alla scultura grecoromana, e così comunica - oltre all'episodio neotestamentario illustrato - una dimensione universale, invitando a vedere la Passio Christi come suprema espressione della sofferenza di ogni uomo in ogni tempo e cultura, quasi a prescindere dal contesto religioso. Caravaggio cioè fa del corpo liberamente offerto il veicolo di un pathos che nobilita l'essere umano in ogni tempo e situazione della storia.
Quasi a prescindere dal contesto religioso, dicevamo; ma non si può veramente prescindere dallo scopo cultuale per cui l'opera fu eseguita e dal contesto ecclesiastico in cui è rimasta fino a tempi recenti, l'altare di una cappella, e così la bellezza antica e l'universalità umanistica del corpus Christi caravaggesco rammentano che la sofferenza del Figlio di Dio e la sua passione d'amore per l'umanità sono di fatto un'unica cosa. L'attraente fisicità di questa figura nuda, vista sopra la mensa eucaristica, alludeva infatti allo Sposo che offre il proprio corpo per la sua Sposa; del resto per la teologia cristiana la croce non è solo "ara" ma anche "talamo".
Ai primi del Seicento, cioè, uno tra i più influenti maestri del barocco, Caravaggio, ripropone in una nuova configurazione l'eloquenza unica della carne umana, drammatizzando al massimo i significati che la tradizione già attribuiva alla corporeità. Il potenziale segnico del corpo nel contesto liturgico viene esaltato, ad esempio, sia dalle grandi dimensioni della centrale figura di Cristo sia dal rapporto del suo corpo con la colonna, che qui allude non solo a quella storica - riconosciuta nel fusto marmoreo conservato in Santa Prassede a Roma - ma anche all'uso iconografico della colonna per simboleggiare la Fortitudo, la virtù della forza interiore. Come in immagini rinascimentali di san Sebastiano che presentano il corpo del martire legato a una colonna, così nella Flagellazione del Caravaggio la sovrapposizione di Cristo alla massiccia colonna antica implica forza spirituale perfino nella debolezza corporea; ma laddove il rinascimento metteva il martire in posa eroica, Caravaggio insiste sul corpo umiliato come segno paradossale di fortezza, leggendo in senso fisico l'intuizione mistica di san Paolo: "Quando sono debole, è allora che sono forte" (2 Corinzi, 12, 10).
Altrettanto paradossale è l'utilizzo della bellezza e specificamente della bellezza "all'antica" - il colto rimando all'universo delle divinità e degli eroi grecoromani. L'universalità a cui abbiamo accennato infatti non riguarda solo il pathos inerente a ogni vita, ma anche l'interezza della gamma affettiva, così che pur nel luogo santo l'attrazione del bello fisico si fa sentire non, certo, in senso edonistico, ma come rivelazione di una sponsalità insita nella natura dell'uomo creato a immagine del Dio-Amore. Eppure questo gran bel corpo torturato sopra la mensa eucaristica doveva scioccare i contemporanei, come facevano sessant'anni più tardi gli spasimi corporei della beata Ludovica Albertoni, nella lussureggiante figura scolpita dal Bernini per un altare nella chiesa romana di San Francesco a Ripa. Ecco, tre secoli prima di Freud il cristiano "catechismo della carne" insegnava a integrare la sessualità nel concetto di se stessi che hanno i credenti; del resto, i mistici cristiani non avevano mai esitato a ricorrere al linguaggio dell'erotismo - una tradizione, questa, ripristinata all'alba dell'era barocca negli scritti di santa Teresa d'Avila.
(©L'Osservatore Romano - 22 agosto 2009)
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