giovedì 13 agosto 2009

Silenzi ed omissioni al tempo della Shoah: le responsabilità dei governi inglese ed americano e l'opera concreta di Pio XII (Raffaele Alessandrini)


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Washington e Londra di fronte alla tragedia degli ebrei europei

Silenzi e omissioni al tempo della Shoah

di Raffaele Alessandrini

Senza memoria non c'è vera comunicazione.
Una memoria corta o mutilata, infatti, distorce e falsa l'autenticità dei messaggi.
Oggi poi che l'era della comunicazione informatica sottopone gli utenti dei media a un flusso incontenibile e spesso incontrollabile di dati - a confermare la valenza della tesi di Marshall Mc Luhan sul mezzo che diviene messaggio - appare ancora più evidente come il semplice comunicare non significhi di per sé rendere un servizio alla serietà dell'informazione. Anzi, spesso avviene proprio il contrario.
Emblematico è il caso di Pio XII.
Dopo essere stato lodato e celebrato negli anni del secondo dopoguerra come defensor civitatis - non solo di Roma, ma della civiltà stessa - dal 1963, e cioè dall'uscita dell'opera teatrale diffamatoria Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth, Papa Pacelli è stato accusato di silenzi, di cinico distacco, addirittura di connivenze antiebraiche con il nazionalsocialismo al punto da essere bollato con l'epiteto tanto infamante quanto radicalmente falso di "Papa di Hitler".
Gran parte dell'opinione pubblica di mezzo mondo per decenni è stata accecata da falsità alimentate ad arte da una pubblicistica scandalistica per lo più animata da precise logiche politiche, da visioni ideologiche antireligiose, nonché dalla cattiva coscienza di qualcuno.
E dire appunto che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e per tutti gli anni Cinquanta, pressoché unanime era stato il coro di elogi e di ringraziamenti riversati sul Pontefice romano. E se qualche voce si era levata per rimarcare i silenzi o un pragmatico disinteresse a livello internazionale sulla tragedia degli ebrei, essa non aveva certo chiamato in causa la Santa Sede. Quanto però sarebbe avvenuto in seguito, a livello di comunicazione - giornalistica, letteraria, storiografica - nei confronti di Papa Pacelli, fino a imbastire una vera e propria leggenda nera, non avrebbe trovato corrispondenze, forse più giustificate, presso altri soggetti.
Per fortuna a volte viene in soccorso, come si diceva, la memoria, orale e soprattutto scritta. Risorsa umanissima sempre da coltivare, soprattutto in una società facile all'oblio come la nostra.
Tre anni dopo la fine della guerra, un articolo intitolato La responsabilità dei governi americano e inglese nella tragedia degli Ebrei d'Europa usciva su "La Rassegna mensile di Israel" (14, 1948, pp. 105-115), la rivista dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane fondata nel 1922 e diretta fino alla morte da Dante Lattes (1876-1965), scrittore, giornalista e docente di lingua e letteratura ebraica all'Istituto di Lingue orientali di Roma, nonché direttore del Collegio rabbinico italiano, figura di assoluto rilievo nel panorama della cultura ebraica in Italia. L'articolo si fonda sui diari di Henry Morgenthau junior (1891-1967), ministro del Tesoro statunitense durante la guerra, il quale sostiene senza mezzi termini che "l'incapacità, indolenza e gli indugi burocratici dell'America impedirono la salvezza di migliaia di vittime di Hitler" mentre "il Ministero degli Esteri inglese si preoccupava più di politica che di carità umana".
"Fin dall'agosto del 1942 noi sapevamo a Washington che i nazisti avevano progettato di sterminare tutti gli Ebrei dell'Europa" - annota Morgenthau - "ma per circa diciotto mesi dal giorno in cui si ebbero i primi rapporti sull'orribile piano nazista, il Dipartimento di Stato non fece praticamente nulla. I suoi funzionari cercarono di schivare la loro ingrata responsabilità, indugiando anche quando vennero loro presentati piani concreti di salvezza e arrivarono persino a sopprimere le informazioni sulle atrocità già commesse, per impedire che l'opinione pubblica offesa forzasse loro la mano".
"Non lo affermo - prosegue Morgenthau - a cuor leggero. La responsabilità del Ministero del Tesoro nell'autorizzare le transazioni monetarie con l'estero implica che noi dovevamo passare alla fase finanziaria del soccorso dei profughi". Questo consentiva di rendersi conto direttamente di "quei terribili diciotto mesi di incapacità, d'indolenza, di rinvii burocratici e simili che avevano tutta l'apparenza di un ostruzionismo calcolato". L'impegno di Morgenthau e dei suoi collaboratori così si infranse per lungo tempo su un muro di gomma. "La lotta fu lunga e straziante. La posta era la popolazione ebraica dell'Europa occupata dai nazisti. La minaccia era la distruzione totale. La speranza era di farne uscire una parte - un po' di donne, forse qualche bambino, e alcuni lattanti - prima che le porte dei campi di concentramento e delle camere a gas si chiudessero".
Alla fine solo grazie a un colloquio ottenuto direttamente con il Presidente Franklin D. Roosevelt alla Casa Bianca si riuscì a togliere la questione dei profughi al Dipartimento di Stato che aveva menato il can per l'aia così a lungo e ad affidarla a una speciale Commissione presidenziale, il War Refugee Board. Ora - continua Morgenthau - "il retroscena angoscioso che si nasconde dietro la creazione del War Refugee Board non deve rimanere più a lungo celato".
Viene spontaneo chiedersi quali mai fossero i motivi di tanta noncuranza indolente da parte del Dipartimento di Stato americano.
Morgenthau afferma che tale organismo "non era psicologicamente né amministrativamente organizzato per occuparsi dei profughi, né era adatto ad azioni rapide o ad attività umanitarie". In breve, il tipico funzionario del servizio estero - afferma Morgenthau - "non viveva che di scartoffie, aveva l'istinto del rinvio, essendo teoria consacrata presso tutti i Ministeri degli Esteri che i problemi differiti finiscono a lungo tempo per risolversi da sé". Indifferenza, dunque, unita a mancanza di spirito di solidarietà; un chiuso conservatorismo e l'antipatia per gli umili e per gli oppressi avrebbero fatto il resto.
Il primo rapporto sul piano concertato da Hitler per lo sterminio degli ebrei in Europa risale al 24 agosto 1942. Gerhard Riegner, rappresentante del Congresso mondiale ebraico residente in Svizzera, in quella data inviò le prime notizie che parlavano del piano di deportazione e di sterminio nazista riguardante una cifra aggirantesi fra i tre milioni e mezzo ai quattro milioni di ebrei d'Europa; tra l'altro nel testo si fa anche cenno del possibile ricorso al cianuro (prussic acid). Il telegramma di Riegner fu inviato, attraverso alcuni passaggi, al presidente del Consiglio ebraico americano Stephen S. Wise, che a sua volta si rivolse a Sumner Welles del Dipartimento di Stato, e questi lo invitò a non rendere noto il fatto finché non si fossero avute notizie più precise.
In novembre giunsero le conferme attese: quattro dichiarazioni giurate che confermavano il rapporto di Riegner. Welles consegnò i documenti a Wise autorizzandolo a pubblicarli. La reazione popolare - ricorda Morgenthau - fu vivace e unanime e la Casa Bianca dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero punito ogni assassinio razziale e politico. "Quando i fatti furono riferiti al Parlamento inglese, ci furono due minuti di silenzio. Le Comunità ebraiche vennero colte in tutto il mondo da angoscia e da lutto".
Il 25 gennaio 1943 giunse un altro telegramma di Riegner dal tenore "netto e terrificante". Diceva che i nazisti in Polonia stavano massacrando circa 6.000 ebrei ogni giorno; che agli ebrei della Germania si negavano pane e tessere alimentari, che in Romania gli ebrei morivano di fame". Sumner Welles passò il telegramma a Wise e subito furono organizzate diverse manifestazioni di protesta a partire da un comizio tenuto al Madison Square Garden. Le agenzie di soccorso si mobilitarono per tentare di salvare una parte di quelle migliaia di sventurati e per settimane il Dipartimento di Stato fu bersagliato di richieste di azione, di progetti di salvataggio da appelli e promesse di assistenza. Annota qui Morgenthau che l'unica reazione sostanziale del Dipartimento fu di "dare una montagna di ragioni per non far nulla".
La cosa più grave, al di là delle lentezze burocratiche, fu quella di tentare di eliminare la corrente d'informazioni che alimentavano la pressione dell'opinione pubblica. Noi - afferma Morgenthau - non avevamo altro che sospetti. Ci vollero mesi di lunghe e pazienti inchieste prima di ricostruire la dolorosa storia della soppressione degli ebrei. Pochi giorni dopo l'arrivo da Berna del nuovo telegramma di Riegner al ministro americano a Berna, Leland Harrison, giunse una risposta, con il numero 354, che in riferimento al primo telegramma diceva in sostanza: "Per l'avvenire noi vi consigliamo di non accettare rapporti che vi siano inviati per essere trasmessi a privati negli Stati Uniti, se non nel caso che un'azione di questo genere sia consigliabile per motivi straordinari. Messaggi privati di questa specie richiamano l'attenzione dei paesi neutrali e vi è da temere che, trasmettendoli, noi rischiamo di provocare da parte dei paesi neutrali stessi misure tali che limitino o impediscano i nostri mezzi di comunicazione intorno ad argomenti ufficiali di carattere confidenziale".
Effetto del telegramma 354 fu quello di ordinare ad Harrison di non trasmettere più nessuna informazione che gli venisse da Riegner, nessun resoconto di atrocità che potesse provocare altri comizi e altre proteste pubbliche. Morgenthau sottolinea che in sostanza il testo del telegramma firmato da Sumner Welles è redatto in uno stile tale che un funzionario affaccendato, nel firmare il consueto numero di telegrammi quotidiani in partenza, può considerarlo come un atto di consueta amministrazione. "E io, - dice testualmente - sono persuaso che accadde proprio così". Del resto Welles anche in seguito avrebbe sempre dimostrato attenzione e sensibilità al problema dei profughi tanto più che nell'aprile del 1943 chiese espressamente nuove notizie a Berna sulla situazione delle sofferenze degli ebrei. Harrison rispose trasmettendo un altro rapporto di Riegner e lamentando che notizie di tal genere non avrebbero dovuto rientrare nelle restrizioni del telegramma 354. Di tale telegramma, di cui peraltro si ignorava il testo, giunse notizia anche al ministero del Tesoro - ricorda Morgenthau - ma quando si ebbe notizia della reazione di Harrison, si richiese copia di quel telegramma al Dipartimento di Stato, che rispose con un rifiuto per il motivo che il telegramma 354 non trattava questioni che riguardavano il ministero del Tesoro. Si era nella primavera del 1943 e a Washington già da sei mesi si conosceva il piano di sterminio degli ebrei messo in atto dai nazisti.
In questo tragico contesto, la questione dei profughi "era vergognosamente tirata per le lunghe", tra incontri e discussioni tra i vari dipartimenti, scambi interminabili di memoriali e di lettere; mentre il tempo passava. Nel marzo 1943, ad esempio, il Congresso mondiale ebraico telegrafava a Washington offrendo la possibilità - denaro alla mano - di liberare 70.000 ebrei di Francia e di Romania. Il riscatto sarebbe stato depositato in Svizzera. Serviva solo che il Governo facilitasse i collegamenti e desse la sua assistenza per l'esecuzione del piano. Il Dipartimento di Stato non voleva fare all'inizio neppure il passo iniziale per avere conferme circa la possibilità dell'operazione. Infine, il 25 maggio il telegramma venne inviato. Berna rispose il 14 giugno e il Dipartimento di Stato sollevò l'obiezione della guerra economica perché l'operazione sarebbe stata "vantaggiosa per il nemico".
Intanto, le notizie che giungevano dall'Europa erano sempre più tragiche. Telegrammi da Berna riferivano che 4.000 bambini tra i due e i quattordici anni erano stati strappati ai loro genitori in Francia e deportati in treni sigillati, chiusi in carri bestiame senza finestre: 60 per carro, senza scorta di adulti, senza pane, senza acqua e senza alcuna misura igienica. E il peggio doveva ancora accadere. Il 17 dicembre 1943, il Dipartimento di Stato americano riceveva un dispaccio da Londra ove si riferiva di una lettera del ministro britannico per la Lotta economica all'ambasciata statunitense. In essa si diceva che il Foreign Office era preoccupato per le difficoltà derivanti dalla sistemazione di un numero considerevole di ebrei qualora fossero stati in grado di lasciare i territori nemici.
Per tale motivo il Governo di Sua Maestà era riluttante perfino ad approvare le operazioni finanziarie preliminari, per quanto esse fossero accettabili da parte del ministero per la Lotta economica. Commenta Morgenthau che "la lettera era una combinazione satanica di freddezza inglese e di doppiezza diplomatica, rigida e corretta che si riassumeva in una sentenza di morte".
Mentre questo accadeva, dall'autunno del 1943 all'inverno del 1944, in una Roma occupata dai nazisti, durante i nove mesi che intercorsero tra l'armistizio e la liberazione della capitale, veniva attuata l'unica plausibile e attuabile forma di difesa degli ebrei e di molti altri perseguitati: quella silenziosa e promossa senza proclami da Pio XII e realizzata - oltre che tra le stesse mura vaticane - nei tanti istituti e conventi di religiosi che ospitarono, nascosero e salvarono moltissime persone, come documentano migliaia di testimonianze e di documenti e sottolineano ormai molti studi, libri e articoli, anche del nostro giornale.
Certo, alla fine della guerra le vittime tra gli ebrei di Roma sarebbero state oltre duemila, ma diecimila furono i salvati.

(©L'Osservatore Romano - 14 agosto 2009)

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