mercoledì 7 gennaio 2009

Il Papa ed una tregua invocata in nome di Dio (Lavazza)


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PER UN PUNTO NEVRALGICO DELLA TERRA

UNA TREGUA INVOCATA IN NOME DI DIO

ANDREA LAVAZZA

Non è il successo immediato la misura degli appelli profetici, dei grandi richiami alla verità e all’amore.
Non sono animati da un piccolo calcolo di ritorno d’immagine, ma solo la loro provenienza da un’autorità credibile e lungimirante impedisce che risultino sterili e retoriche parole al vento. L’accorata, ripetuta, vibrante esortazione a fermare le armi in Medio Oriente di Benedetto XVI ha esattamente questa dimensione. Dalla cattedra di Pietro, attenta a tutte le tragedie che affliggono l’umanità – senza sciovinismi confessionali –, si leva una voce che sarebbe del tutto fuorviante arruolare su un fronte o sull’altro.
«Mentre ribadisco che l’odio e il rifiuto del dialogo non portano che alla guerra – ha detto il Papa – vorrei oggi incoraggiare le iniziative e gli sforzi di quanti, avendo a cuore la pace, stanno cercando di aiutare israeliani e palestinesi ad accettare di sedersi attorno ad un tavolo e di parlare».
Non si tratta di suggerire ipotesi specifiche alla diplomazia, ma di smuovere i cuori e concretamente spingere alla trattativa con il peso morale del Vaticano.
L’implorazione finale – «Iddio sostenga l’impegno di questi coraggiosi 'costruttori di pace' » –, quasi una benedizione per i protagonisti delle missioni politiche di questi giorni, traduce l’accorata partecipazione del Pontefice per le vite che vengono stroncate, l’apprensione per il martoriato Medio Oriente e le tensioni che vi si accumulano.
C’è anche chi ha visto uno sbilanciamento della Santa Sede a sfavore di Israele, le cui ragioni di difesa sarebbero sminuite, sottovalutando specularmente i torti di Hamas. D’altra parte, coinvolgere il Papa in un inconcludente dibattito su 'chi sta più con chi' sembra futile ancora prima che irriguardoso. Ci sarebbe piuttosto da esercitarsi con maggiore costrutto sulle possibili soluzioni alla crisi, consapevoli che non potrà esservi alcuna svolta miracolosa e improvvisa.
La premessa di ogni ragionamento – palese per alcuni, difficile da accettare per altri – sta nel fatto che Israele considera quella in corso un’operazione di polizia, e non una guerra in senso classico. Certo, mancano i tradizionali elementi del conflitto tra Stati – Gaza è in una condizione giuridica internazionale sui generis –, ma soprattutto Olmert e il suo governo non pensano che vi sia uno scontro in qualche modo 'simmetrico': i miliziani fondamentalisti sono come terroristi asserragliati in una enclave, da snidare e mettere in condizioni di non nuocere – 4mila i razzi da loro lanciati a partire dal 2001 e 18 vittime prima dell’offensiva, quattro in seguito.
Difficile negare la criminale ostinazione di Hamas e la legittimità 'di fatto' di una reazione armata di sicurezza, il problema è legato alla considerazione di quelli che nel brutale gergo militare vengono chiamati 'effetti collaterali'. Ad esempio, in una delle regioni più densamente popolate al mondo, è necessario sparare a pochi terroristi proprio in 'quel' frangente specifico, con il rischio di colpire una scuola diventata rifugio di civili (com’è avvenuto), facendo 40 morti?
Chiedere una tregua non significa quindi parteggiare per Hamas, né darla vinta all’estremismo (a questo proposito preoccupano e vanno subito fermamente condannati i vandalismi contro le sinagoghe in Europa registrati nelle ultime ore); vuole dire piuttosto fermare le armi perché nessun missile cada sul territorio israeliano, si evitino le uccisioni di civili e si possa alleviare la grave emergenza umanitaria che innegabilmente esiste a Gaza.
Il dopo è tutto da inventare. E non saranno i 'protagonismi logistici' che talora sembrano spuntare nelle diplomazie europee (compresa quella italiana), smaniose di ospitare ipotetici summit, a sbloccare un’impasse che sarà ulteriormente aggravata da quest’ultima fiammata. Per questo ha ancora più valore l’appello del Papa .
E per questo è inevitabile che vi sia un implicito sovrappiù di onere per Israele. È una democrazia, che conosce il valore della vita e che ha facoltà di difendersi con mezzi proporzionati. Sarà poi compito anche di Europa e Usa, finora titubanti per ragioni diverse, contribuire alla sicurezza dello Stato ebraico e al contenimento di Hamas e dei suoi complici più o meno occulti.

© Copyright Avvenire, 7 gennaio 2009

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