mercoledì 24 giugno 2009

Anno Sacerdotale: Guardare in alto, fissare la meta e continuare a salire (Ivan Maffeis)


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ANNO SACERDOTALE - Nel mezzo del cammino

Guardare in alto, fissare la meta e continuare a salire

Ivan Maffeis
direttore "Vita Trentina" (Trento)

Un Anno Sacerdotale, come quello che viene aperto venerdì 19 giugno, ha senso soltanto se non si riduce ad un lifting esteriore, magari all'insegna di nuove forme di clericalismo, ma diventa occasione per rinnovare una scelta di fondo.
Oltre cinquant'anni fa René Voillaume, il fondatore dei Piccoli fratelli, scrisse una lettera appassionata, che lui stesso titolò "La seconda chiamata". Suoi destinatari erano non tanto coloro che muovevano i primi passi nella vita religiosa, ma chi si dibatteva "nel mezzo del cammino".
Si esce dal Seminario - come ci si sposa - con l'impressione sincera di fare il passo risolutivo, quello che porta a lasciare le barche e le reti di progetti legati ad un'altra vita familiare e professionale. In quell'inizio non spaventano le esigenze di quel "sì", tanto più che si è sostenuti da qualche soddisfazione sensibile e dall'apprezzamento generoso degli altri, verso i quali si è a propria volta "naturalmente" portati.
È la coperta del tempo a smorzare gli entusiasmi; è la sua polvere a velare d'insensibilità anche le realtà più grandi. Si diventa allora più propensi a conteggiare quello che si dà; a sentire il carico di una sottile stanchezza; ad agire in modo quasi meccanico, privando di un'anima anche i gesti più alti. (È questo che impoverisce le celebrazioni, non certo la riforma conciliare, come qualcuno vorrebbe far credere…).
Si diventa più intolleranti ai limiti altrui, li si critica con maggiore disinvoltura; si accarezzano altre condizioni di vita, che ora appaiono più cariche di possibilità e quindi di libertà.
L'usura dell'ideale porta al compromesso tra le esigenze della scelta compiuta in gioventù e la vita quotidiana, all'insegna di un "realismo" che spinge ad accontentarsi del basso profilo, se non della mediocrità.
Momenti del genere diventano cruciali nella vita di chiunque, prete, coniuge o celibe che sia. Sono un campanello d'allarme. Nessuno si fa bastare una fedeltà puramente esteriore, rassegnata, compensata da qualche surrogato più o meno lecito. Quando accade è la deriva: si va allora alla ricerca di una qualche distrazione, vuoi la carriera, il denaro o qualche ambiguità affettiva. La responsabilità di chi è stato affidato alla nostra cura - familiari o parrocchiani che siano - diventa un peso, come la fedeltà ad un solo amore.
Eppure, proprio questa situazione "sul filo", se non vi si indugia, può trasformarsi in una tappa di una maturazione, quindi di una nuova partenza, di un cammino probabilmente più umile, più lento, ma anche più autentico.
Ricordo una salita al Campanil Basso, nel Gruppo del Brenta, un anno e mezzo fa con due amici. Una giornata di fine settembre, iniziata in compagnia di un'alba frizzante. Qualche ora dopo, gli ultimi due tiri di corda parevano impossibili. Con la stanchezza affioravano domande inconsuete, circa il perché di quella levataccia, della fatica sul sentiero di avvicinamento, del rischio che la parete comunque sempre rappresenta.
È il momento in cui non ti è più dato di guardare in basso - il panorama che fino a poco fa ti gonfiava il cuore ora si trasforma in vertigine - né di guardarti attorno, quasi a cercare un'improbabile via di fuga.
È il passaggio che obbliga a guardare in alto, a fissare la meta, a sganciarsi dal terrazzino della sosta per rimettere le mani sugli appigli e continuare a salire.

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Evitiamo di fare le solite battute sul Concilio si' e Concilio no!
I problemi sono sotto gli occhi di tutti...cerchiamo di risolverli senza puntare il dito contro tutti coloro che manifestano una critica all'andazzo generale
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R.

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