mercoledì 3 giugno 2009

Mons. Jean-Louis Bruguès: Formazione al sacerdozio tra secolarismo e modelli ecclesiali (Osservatore Romano)


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Il segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica all'incontro dei rettori dei seminari pontifici

Formazione al sacerdozio tra secolarismo e modelli ecclesiali

Si è svolto a Roma l'incontro annuale dei rettori dei seminari pontifici. Pubblichiamo il testo dell'intervento dell'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica.

di Jean-Louis Bruguès

Mi date oggi l'opportunità di fare meglio la vostra conoscenza, sebbene abbia avuto già il piacere d'incontrare alcuni di voi e di recarmi in numerosi seminari. Mi è stato chiesto, infatti, di rievocare la mia esperienza personale nella formazione dei sacerdoti e di trarne con voi alcune riflessioni sugli aspetti positivi o che pongono degli interrogativi, oppure decisamente negativi, di questa stessa formazione.
La mia esperienza personale conferisce un limite ovvio alla prospettiva che avete scelto: conosco bene la situazione francese, e abbastanza bene quelle svizzera e spagnola; le mie diverse responsabilità mi hanno condotto a viaggiare a più riprese in America del Nord e del Sud, più raramente in Africa; dal mio arrivo a Roma, ho imparato ad allargare il mio sguardo ad altri Paesi, ma non saprei farmi forte di un'esperienza che abbia valore per la Chiesa universale. È ben possibile, anzi probabile che l'una o l'altra delle mie analisi non valga per i Paesi che voi rappresentate.
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione. Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre. Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata un termine-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa. La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIii secolo, prima di estendersi all'insieme delle società moderne. Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un Paese all'altro. In Francia e in Belgio, per esempio, tende a bandire i segni dell'appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata; si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, in compenso, si armonizza facilmente con l'espressione pubblica delle convinzioni religiose; l'abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali. Da una decina d'anni a questa parte, è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante: sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all'europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l'eccezione. Ora, numerosi sono coloro che, con Habermas, per esempio, pensano che l'inverso sarebbe più giusto e che, nell'Europa post-moderna in cui ci troviamo a vivere, le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale. Ho pronunciato già parecchie conferenze su questo argomento, ma non è questa la sede per ritornare su questo punto.
Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri Paesi un crollo della cultura cristiana. I giovani che si presentano nelle nostre case di formazione non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi. Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino a ora. Ne menzionerò solamente due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo - un anno o più - di formazione iniziale, di "ricupero", di genere al tempo stesso catechetico e culturale. I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici del Paese. Personalmente, penso volentieri a un anno completo per l'assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo, occorre, probabilmente, rivedere i nostri programmi di formazione. I giovani che vengono da noi sanno di non sapere; sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa. Ci si può lavorare veramente bene. La loro mancanza di cultura ha questo aspetto positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori. È una fortuna. Ci troviamo quindi a costruire su una tabula rasa. Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all'essenziale. Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico, come era stato il caso della mia generazione - per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico - e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce - precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi pongo in questo momento. Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d'alto livello. Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti. Perciò, i corsi si sono moltiplicati, al punto di appesantire i programmi in un modo, a mio parere, esagerato. Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi. Una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un'accumulazione dei corsi e un'impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione? Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l'estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l'architettura piuttosto che la decorazione. Altrettante ragioni, come potrete capire, mi portano a credere che l'apprendimento della metafisica, per quanto ingrato, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia. Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica, il che è una fortuna, ma la loro mancanza di cultura generale non gli permette di entrare con passo deciso nella teologia.
In numerose occasioni, ho parlato delle generazioni, della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future. È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione. Certo, il passaggio da una generazione all'altra ha sempre posto dei problemi d'adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare. Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio. Come dicevo poco fa, questo rappresenta un fenomeno storico molto antico, poiché conta già più di due secoli, ma ha conosciuto un'accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta. Per gli uomini della mia generazione, e ancora di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza. Sono dunque arrivati a interpretare l'"apertura al mondo" invocata dal concilio Vaticano ii come un passaggio alla secolarizzazione. Di fatto, abbiamo vissuto, o persino favorito, un'autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali. Gli esempi abbondano: i credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie - tutto questo necessario - ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare con ragione la catechesi, ma questa stessa catechesi non crea un'impasse rispetto all'escatologia? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, attese dall'opinione pubblica, ma parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d'ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest'ultima non ha perso, in gran parte, il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una "Chiesa di puri", una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare (processioni, pellegrinaggi, eccetera)?
Il confronto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese. Potremmo avanzare qui l'ipotesi, senza però poterlo dimostrare per mancanza di tempo, che siamo passati da una Chiesa di "appartenenza", nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di "convinzione", in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine. Questo passaggio è accompagnato da variazioni numeriche impressionanti. Gli organici sono diminuiti a vista d'occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari. Un tempo, il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch'essi a questa Chiesa di "convinzione". Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie. Sono cresciuti spesso in famiglie divise o "scoppiate", il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d'immaturità affettiva. L'ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale - quello che dico non vale dovunque; ho conosciuto delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portava ancora letteralmente delle vocazioni sbocciate nel loro seno. Per questo offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi. A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare più particolarmente la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale. La mia generazione, ripeto, ha identificato l'apertura al mondo col passaggio alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino. I più giovani sono nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale; l'hanno assimilata col latte della nutrice: cercano innanzitutto di prendere le distanze, e rivendicano la loro identità e le loro differenze. Esiste oramai nella Chiesa europea, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, forse di frattura, che varia indubbiamente da un Paese all'altro, e introduce quelle che chiamerò una "corrente di composizione" e una "corrente di contestazione". La prima ci porta a osservare che esistono dei valori a forte densità cristiana nella secolarizzazione, come l'uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione. La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze. Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate. Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo d'una minoranza contestatrice. La prima corrente è risultata predominante nel dopo-concilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e durante il successivo decennio. Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, particolarmente - ma non esclusivamente - sotto l'influenza di Giovanni Paolo II. La corrente della composizione è invecchiata, ma suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa. La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante. Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare la contrapposizione che ho appena descritto con numerosi esempi. Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione: alcune giocano la carta dell'adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell'aspetto della dottrina o della morale cattolica; altre, d'ispirazione più recente, mettono l'accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all'evangelizzazione. Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
Lo stesso si potrebbe affermare, per ricuperare il nostro argomento, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose. I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane. I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a superare la soglia delle nostre case, perché spesso non trovano ciò che cercano. Sono portatori d'una preoccupazione d'identità (con un certo disprezzo, vengono qualificati talvolta come "identitari"): identità cristiana - in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? - e identità del sacerdote, mentre l'identità del religioso è più facilmente percepibile. Come favorire un'armonia tra i formatori - che appartengono spesso alla prima corrente - e i giovani che si identificano con la seconda? I formatori finiranno per aggrapparsi a criteri d'ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso d'un seminario francese in cui le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d'anni, perché giudicate troppo devozionali: i seminaristi nuovi hanno dovuto battersi per parecchi anni per il loro ristabilimento, mentre alcuni formatori hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un "ritorno al passato"; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l'impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita. Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani - oppure intere comunità parrocchiali - provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano loro affidati.
Vorrei dirvi che comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori. Più che il passaggio da una generazione ad un'altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un'interpretazione del concilio ad un'altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro. La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa. Mi auguro che la mia presenza tra voi sia percepita come un segno di fiducia e d'incoraggiamento da parte della nostra Congregazione, e della mia persona in particolare.

(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)

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