lunedì 3 agosto 2009

Se i paesi «amici» non proteggono i Cristiani (Fulvio Scaglione)


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Su segnalazione di Elisabetta leggiamo:

Se i paesi «amici» non proteggono i Cristiani

Fulvio Scaglione

I sette cristiani bruciati vivi in Pakistan, in un pogrom organizzato dagli estremisti islamici, sono i martiri più tipici del nostro tempo. Poveri, anonimi, indifesi e strumentalizzati. Dei circa 170 milioni di pachistani, i cristiani sono meno di 4 milioni, il 2% della popolazione, il bersaglio ideale per qualunque rivendicazione, visto che anche la più folle e pretestuosa di esse può appoggiarsi a due pilastri dell'organizzazione istituzionale pakistana: la Costituzione del 1973, che prevede la libertà di culto ma garantisce alla sharia (il codice islamico) il rango di «legge suprema dello Stato», e il codice penale che punisce con la morte il reato di blasfemia e l'insulto al Corano. Se a questo si aggiungono autorità locali spesso inette o corrotte, o non meno fanatiche degli estremisti che dovrebbero combattere, si arriva per conseguenza a massacri come quello della città di Gojra, nel Punjab, dove non a caso è stata aperta un'inchiesta sul mancato intervento delle forze dell'ordine a difesa dei cristiani attaccati dalla marmaglia armata. Tanto più che i precedenti non mancavano: a Faisalabad, a soli 30 chilometri da Gojra, un cristiano fu condannato a morte per blasfemia e il vescovo John Joseph arrivò a suicidarsi per protesta; nella stessa zona, dal 2005 a oggi, case, scuole, chiese e conventi sono stati bruciati senza un'apprezzabile reazione delle autorità.
A fomentare le violenze sono stati i militanti di Sipah-e-Sahaba, terroristi sunniti già responsabili di attacchi armati contro la minoranza sciita e contro la polizia. Ma la partecipazione dei mullah e l'intervento della popolazione, che ha persino bloccato strade e ferrovie per ostacolare l'arrivo di eventuali soccorsi, rende l'idea di una mentalità diffusa e pronta a scatenarsi. Come già avvenuto in India, con la persecuzione dei cristiani nello Stato dell'Orissa da parte degli hindù, o nello stesso Pakistan in precedenti occasioni, e come verificato molteplici volte anche in Iraq, scopriremo presto che dietro le accuse di inverosimili offese al Corano o all'islam si celano obiettivi molto più banali e materiali: proprietà, commerci, terreni, rendite. Non sempre, ma spesso, la religione è un pretesto, il drappo rosso sventolato sotto gli occhi degli ingenui e dei fanatici per ottenere la massa di manovra necessaria ai professionisti della violenza.
Questo non allevia il problema. Contribuisce però a delinearne i contorni, e forse a trovare i rimedi. Al posto di annegare tutto nel calderone retorico dello scontro di civiltà si potrebbe far leva sulla politica. Perché gli episodi atroci di cui stiamo parlando sono avvenuti e avvengono in Paesi che si proclamano alleati dell'Occidente e che dall'Occidente sono stati a più riprese appoggiati e aiutati. Si pensi a che cosa sarebbe potuto succedere al Pakistan se la rivolta talebana dello Swat non fosse stata fronteggiata anche con il supporto degli Usa. Per non dire dell'India, appena visitata da Hillary Clinton (segretario di Stato Usa), o del regime iracheno, che non esisterebbe senza l'intervento americano.
È ora di chiedere, anzi di pretendere qualcosa in più da questi Paesi. Per esempio che la protezione delle minoranze (etniche e religiose) diventi una priorità, anche tenendo conto delle quantità di denaro che essi spendono per la difesa e degli armamenti che l'Occidente fornisce loro. Un criterio per decidere i livelli della nostra collaborazione e del nostro aiuto. Altrimenti continueremo come con l'Iraq: un sacco di applausi per la nuova Costituzione, come voleva lo Zio Sam; silenzio sull'articolo 2 che dichiara la sharia fondamento della legislazione civile; e poi tanto sdegno per le persecuzioni anticristiane.

© Copyright Eco di Bergamo, 3 agosto 2009

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