mercoledì 4 novembre 2009
Utili e necessarie le discussioni teologiche ma abbiano lo scopo di far trionfare la verità nella carità: così il Papa all’udienza generale (R.V.)
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Utili e necessarie le discussioni teologiche ma abbiano lo scopo di far trionfare la verità nella carità: così il Papa all’udienza generale
Le sane discussioni teologiche sono utili e necessarie purché contribuiscano “a salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità”.
All’udienza generale di oggi, davanti a 35 mila pellegrini, in Piazza San Pietro, Benedetto XVI ha parlato del celebre confronto che, nel XII secolo, si produsse tra la teologia monastica e quella scolastica, tra la teologia del cuore e la teologia della ragione. Ed ha messo in guardia da un eccessivo intellettualismo che - ha detto - può svuotare di senso morale le azioni umane, come spesso il relativismo etico dei nostri tempi dimostra. Il servizio di Alessandro De Carolis:
La sfida tra la fede e la ragione che cercano di “spiegare” il divino è vecchia di almeno un millennio. Nel XII secolo, ha sottolineato Benedetto XVI, le due correnti della teologia monastica e della teologia scolastica si contrapposero dando luogo a controversie delle quali la più famosa resta quella che per lungo tempo divise l’abate Bernardo di Chiaravalle e il filosofo Abelardo.
Se la teologia è e resta, ha detto all’inizio il Papa, “una comprensione razionale, per quanto possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede”, il contrasto tra i due rappresentanti si consumò proprio su quale fosse la chiave di tale comprensione, che per Bernardo di Chiaravalle doveva essere la fede mentre per Abelardo l’intelletto:
“Così Bernardo fa fatica ad accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all’esame critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l’intellettualismo, la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede”.
Per Bernardo, ha affermato il Pontefice, la “fede stessa è dotata di un’intima certezza”, basata sui Padri antichi, sui Santi, sull’ispirazione dello Spirito di Dio nei credenti. Per il grande monaco dunque, ha osservato Benedetto XVI, cercare di “catturare il mistero di Dio” con l’intelligenza umana rasentava la “spregiudicatezza”. E’ il Verbo divino, insegna Bernardo, che “visita” l’anima e la porta all’unione mistica con Sé:
“La teologia per lui non può che nutrirsi della preghiera contemplativa, in altri termini dell’unione affettiva del cuore e della mente con Dio”.
A questa “teologia del cuore”, come la definisce il Papa, si oppone Abelardo con la sua “teologia della ragione”. Filosofo di grande intelligenza e pari abilità dialettica, Abelardo insegnò a Parigi entrando spesso in polemica con i teologi del suo tempo, subendo anche condanne, poi rientrate, da parte della Chiesa. Agli occhi dell’abate di Chiaravalle certe audaci interpretazioni di Abelardo “riducevano la fede - ha rilevato il Pontefice – a una semplice opinione sganciata dalla verità rivelata”:
“Effettivamente, un uso eccessivo della filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio. In campo morale il suo insegnamento non era privo di ambiguità: egli insisteva nel considerare l’intenzione del soggetto come l’unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali, trascurando così l’oggettivo significato e valore morale delle azioni: un soggettivismo pericoloso. È questo - come sappiamo - un aspetto molto attuale per la nostra epoca, nella quale la cultura appare spesso segnata da una crescente tendenza al relativismo etico: solo l’io decide cosa sia buono per me, in questo momento”.
E qui Benedetto XVI ha ribadito che i principi interpretativi suggeriti dalla filosofia hanno un valore solo “strumentale” e devono trovare un “equilibrio” con quelli che il Papa ha chiamato i “principi architettonici” della Rivelazione. Se questo equilibrio si spezza, spetta al Magistero ripristinarlo, difendendo i credenti più semplici “da argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede”. E’ questo uno dei grandi insegnamenti che resta di quella antica disputa:
“Anzitutto credo che esso mostri l’utilità e la necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile”.
Benedetto XVI ha poi concluso la catechesi con un altro insegnamento giunto a noi da due contendenti che, pur accesi avversari, non dimenticarono alla fine il valore più grande, quello della riconciliazione:
“Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità”.
Nonostante i colori sbiaditi del cielo romano, carico di nubi, l’udienza è stata rallegrata da un gruppo di musicisti zingari ungheresi, che ha eseguito diversi brani, tra cui la “Rapsodia ungherese N. 2” di Ferenc Liszt.
Il momento dei saluti è stato per il Papa occasione per ricordare figure di spicco della Chiesa di ieri e di oggi. A cominciare da San Carlo Borromeo - del quale oggi si celebra la memoria liturgica e al quale il Pontefice ha affidato giovani, sposi e malati - per proseguire con Giovanni Paolo II, che di San Carlo portava il nome e che Benedetto XVI ha indicato come “esempio” che “ispiri sulla via della santità”, per finire con don Oreste Benzi, il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII scomparso due anni fa. Questo il saluto rivolto dal Papa al folto gruppo della Comunità:
“Cari amici, la feconda eredità spirituale di questo benemerito sacerdote sia per voi stimolo a far fruttificare nella Chiesa e per il mondo la provvidenziale opera da lui iniziata a favore degli ultimi della nostra società. Vi accompagno volentieri con la preghiera”.
Dunque, l'occasione del secondo anniversario della morte di don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha portato in Piazza San Pietro una nutrita presenza internazionale dei rappresentanti della Comunità. Persone che - sull’esempio di don Benzi - hanno dedicato la loro vita agli ultimi, come ad esempio le donne costrette alla prostituzione. Come è stato accolto “il pensiero speciale” rivolto da Benedetto XVI a don Oreste? Benedetta Capelli lo ha chiesto a Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII:
R. - Con tanta gioia e con festa, perché la comunità Papa Giovanni XXIII ha scelto proprio questo momento per venire qui: da tutta Italia e da tutto il mondo, più di tremila persone sono giunte a Roma con i propri figli, anche i diversamente abili e le ragazze che sono uscite dalla strada. Abbiamo voluto essere qui a salutare ed incontrare il Papa come Padre della Chiesa universale, in questo secondo anniversario della nascita al cielo di don Oreste.
D. - Il Papa proprio ha ricordato questa fecondità spirituale di don Oreste Benzi. Come si sviluppa ancora oggi?
R. - Come prima e più di prima, perché si continua nelle più di cinquecento realtà di accoglienza, di condivisione, case-famiglia, che sono sparse ormai in tutta Italia e nei quasi 30 Paesi dei cinque continenti. Ma anche attraverso le nuove richieste che ci vengono dal Nepal all’Argentina, al Ciad, fino alle nuove prossime aperture, in primavera, a Lourdes e a Fatima. La Comunità continua la presenza di don Oreste, che sentiamo sempre più viva.
D. - In che modo la realtà stessa, le varie emergenze condizionano il modo di lavorare che da tempo voi avete sperimentato?
R. - Il grido dei poveri che sale a Dio, come ci ricordava sempre don Oreste, deve essere ascoltato in ogni momento, in ogni tempo, in ogni luogo, dalla Comunità. Quindi, noi ci lasciamo interpellare dalle nuove emergenze, come è stato per il fenomeno della prostituzione, e come adesso accogliamo molte donne che scelgono di non abortire, proprio perché sono sostenute da una comunità che le aiuta nell’accoglienza della vita, delle loro creature. Per quanto riguarda le nuove emergenze, come il carcere, stiamo proponendo una nuova forma di carcere alternativo, o meglio di comunità, che permetta di svolgere delle pene alternative. Stiamo lavorando ancora di più sulla strada, non solo con le ragazze, ma con i senza-fissa-dimora, con i giovani che sempre di più sono schiavi della droga. Le nuove povertà ci interpellano e noi vogliamo essere contemporanei della storia e vogliamo, come diceva don Oreste, amare sempre, "essere tutto bene senza alcun male".
D. - Quanto questa attenzione di don Oreste ai poveri, agli ultimi, si fa ancora oggi carne?
R. - Come ci richiamava lui: un popolo è tale quando sa accogliere i più poveri e i più deboli, quando il passo di tutti è segnato dallo zoppo, dalla partoriente, dall’orfano, dalla vedova, cioè da chi fa più fatica. La Chiesa è tale, in quanto Chiesa di tutti, e soprattutto la società e una nuova umanità sono tali quando gli ultimi diventano i protagonisti della storia. Quindi, don Oreste è stato al fianco dei poveri e la Comunità Papa Giovanni XXIII continua a stare al fianco dei poveri, avendo però le proprie radici in Dio. Don Oreste diceva: “Non c’è nessuno più impegnato a questo mondo di chi sa stare con il Signore, di chi sa stare con Dio”.
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