venerdì 15 maggio 2009

Il Papa in Terra Santa: quando le critiche nascono dalla paura (AsiaNews)


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Papa: in Terra Santa, quando le critiche nascono dalla paura

di Franco Pisano / inviato

Estremisti di tutti i fronti hanno trovato difetti alla visita di Benedetto XVI, il che dimostra che le sue parole di dialogo e tolleranza hanno colpito nel segno. Sull’aereo che lo ha riportato a Roma: per la pace sono più visibili le difficoltà, ma nulla è così visibile come il desiderio di pace.

Roma (AsiaNews)

As Safir, un quotidiano libanese filosiriano – quindi vicino agli estremisti di HezBollah e Hamas – ha scritto che l’autorità morale del Papa “non ha un'influenza né un pubblico nell'Oriente arabo, tali da lasciare tracce capaci di incidere sul cambiamento”; un esponente di Hamas lo ha accusato di non aver detto cose che invece ha detto; un imam di Nazaret, che voleva costruire una moschea addosso alla basilica della Natività, l’ha definito “non gradito”; gli israeliani più vicini all’opposizione e alla destra ultraortodossa lo hanno attaccato, persino “dimenticando” affermazioni fatte lo stesso giorno.
E parte della stampa occidentale ha fatto coro.
Se gli estremisti o chi comunque deve criticarlo per principio lo hanno attaccato, vuol dire che Benedetto XVI qualche risultato lo ha ottenuto: non ci si scaglia contro chi è irrilevante.
Il viaggio del Papa, come egli stesso aveva detto, aveva numerosi obiettivi: pastorali verso i cattolici di questa terra, ecumenici verso le altre confessioni cristiane, interreligiosi con ebrei e musulmani, politici per contribuire alla ripresa del processo di pace in Medio Oriente. E, al di là dei giudizi, è un fatto che Benedetto XVI ha affrontato tutte le questioni dicendo tutto quello che sull’argomento voleva dire, gradito o meno che fosse agli interlocutori. Così agli israeliani ha parlato dei diritti dei palestinesi a un loro Stato e alla libertà di spostamento e di religione, ai palestinesi del diritto degli israeliani a vivere sicuri e del rifiuto da opporre al terrorismo.
La pace, innanzi tutto, “Proprio perché non siamo un potere politico – aveva sostenuto all’inizio del viaggio, sull’aereo – possiamo aiutare a capire e vedere i criteri, ciò che serve veramente per la pace”.
“Sono più visibili le difficoltà – ha detto Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo che lo ha riportato a Roma - e le dobbiamo vedere e chiarire, ma nulla è cosi visibile come il desiderio comune di pace”.
Di pace ha parlato con tutti. fin dall’arrivo in Israele, quando ha chiesto una soluzione “giusta e duratura” che permetta “ai due popoli” di “vivere in pace in una patria che sia la loro”, concetto precisato a Betlemme, nei territori dell’Anp, nell’affermazione del diritto dei palestinesi ad una “sovrana patria”, “sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti”, accompagnata da un “supplicare” tutti i popoli della regione, in guerra da 60 anni “ad accantonare qualsiasi rancore e contrasto”.
Lo ha ribadito alla partenza quando ha sostenuto “il diritto” di Israele ad esistere, a vivere in pace e sicurezza, entro confini internazionalmente riconosciuti”, ma anche del “diritto” dei palestinesi “a una patria sovrana e indipendente, per vivere dignitosamente e muoversi liberamente”.
L’affermazione sul diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato indipendente, ha creato nei Paesi arabi un’ondata di simpatia per il Papa.
Ma anche questo ha un risvolto politico: Benedetto XVI l’ha detto incontrando Mahmoud Abbas, l’odiato – da Hamas e compagni – presidente dell’Anp. La reazione è stata mandata dal Libano, con un’accusa particolarmente odiosa per i musulmani: “non è andato oltre il proselitismo cattolico su pace, dialogo e riconciliazione”
Il “basta spargimento di sangue, basta conflitti, basta terrorismo, basta guerra” dell’ultimo giorno ha avuto in precedenza affermazioni sulla necessità, ha detto agli israeliani, di “creare un clima di fiducia”, mentre ai palestinesi ha ricordato che “non importa quanto intrattabile e profondamente radicato possa apparire un conflitto, ci sono sempre dei motivi per sperare che esso possa essere risolto, che gli sforzi pazienti e perseveranti di quelli che operano per la pace e la riconciliazione, alla fine portino frutto”. Ai cristiani ha chiesto di saper essere “ponte”.
A più riprese, in questi giorni, Benedetto XVI ha cercato di dare coraggio ai cattolici di questa regione, in forte calo per le difficoltà economiche e più ancora per la pressione sociale di israeliani e musulmani.
La messa di Nazaret è stata la più grande riunione di cristiani - forse 40mila - in Terra Santa degli anni recenti, in Giordania ha dato avvio alla creazione di una università cattolica - con quello che un’istituzione del genere significa sul piano della presenza culturale – e benedetto le prime pietre di nuove chiese, ed anche questo ha il suo peso. Ha promesso sostegno ai cristiani della regione, ai quali ha affidato il compito di “offrire il loro contributo, ispirato dall’esempio di Gesù, di riconciliazione e pace con il perdono e la generosità”, ha detto ai 20mila cattolici presenti nello stadio di Amman.
E “promuovete il dialogo e la comprensione nella società civile - aggiunge - specialmente quando rivendicate i vostri legittimi diritti”. E a Nazaret, ai vescovi, sacerdoti, religiosi e membri del laicato cattolico ha raccomandato non solo di restare in questa terra, ma anche di svolgervi un ruolo di portatori di pace. “Come Maria – ha detto loro - voi avete un ruolo da giocare nel piano divino della salvezza, portando Cristo nel mondo, rendendo a Lui testimonianza e diffondendo il suo messaggio di pace e di unità”.
L’ecumenismo ha visto manifestazioni di “affetto”, oltre a reciproche riaffermazioni della volontà di far proseguire il dialogo. “Il clima ecumenico – ha detto oggi ai giornalisti - è incoraggiante, è la Terra Santa che incoraggia”.
Sul piano dei rapporti interreligiosi, quelli con i musulmani hanno visto in Giordania atteggiamenti di grande rispetto e simpatia, fino allo stendere una stuoia all’interno della moschea al-Hussein bin-Talal di Amman, per non fargli togliere le scarpe. Gesto fatto anche dal principe Ghazi, consigliere religioso del re e uno dei promotori del documento di sostegno al dialogo, detto dei 138, dal numero dei saggi musulmani che l’hanno firmato. Anche qui, se a Amman ha detto che cristiani e musulmani debbono assumersi “la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana”: ciò mostrerà che la religione non “è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo”, non ha taciuto un chiaro riferimento al fondamentalismo, affermando che la fede “viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso”. L’episodio dello sheik Taisir Tamini, intervenuto all’incontro interreligioso in corso al Notre Dame of Jerusalem Center, per lanciare una lunga invettiva contro Israele e la richiesta fattagli dal Gran mufti di Gerusalemme, Mohammad Hussein, di “svolgere un ruolo efficace per mettere fine all'aggressione” israeliana contro i palestinesi sono due conferme delle differenze esistenti nell’islam e dell’importanza data al Papa e dei tentativi di “usarlo” da ciò derivanti.
Particolarmente delicato era il rapporto con gli ebrei, avvelenato, a inizio anno dalla vicenda della remissione della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Richard Williamson, anche se poi chiarito. Arrivando in Israele ha parlato della “enormità” del “crimine” della Shoah, ha detto di voler rendere onore alla memoria dei “sei milioni di ebrei vittime” dell’Olocausto, ha definito “totalmente inaccettabile” l’antisemitismo, da combattere “ovunque si trovi”. Quello stesso pomeriggio, allo Yad Vashem, il museo della memoria dell’Olocausto, dove ha affermato che la Shoah non deve essere mai “negata, sminuita, dimenticata”.
Anche in questa occasione, accanto a coloro, compresa l’associazione dei superstiti del’Olocausto, che hanno espresso apprezzamento, c’è stato chi ha criticato la visita allo Yad Vashem, perché non aveva detto che le vittime sono state sei milioni, non ha posto le scuse della Chiesa cattolica per il suo antisemitismo, non ha sottolineato le responsabilità dei tedeschi e del nazismo. In proposito, il presidente Peres, al momento del commiato, ha espresso gratitudine al Papa per le parole sulla Shoah e l’antisemitismo “che hanno toccato le noste menti e i nostri cuori”.
Da parte sua, ancora rientrando a Roma Benedetto XVI ha affermato di aver trovato in “ebrei cristiani e musulmani una decisa volontà di dialogo per la reale collaborazione delle religioni. Non una collaborazionr per motivi politici, ma dettata dalla fede”. Alla fine anche solo questo sarebbe un successo.

© Copyright AsiaNews

2 commenti:

mariateresa ha detto...

il commento entusiasta dell'inviata della Croix.
Ne sono contenta.
Ma insomma, voi mi capite...

http://www.la-croix.com/article/index.jsp?docId=2373795&rubId=1098

Sembra che il Papa debba rispondere a certi dogmi giornalistici. Se accade si arriva all'eccitazione. Sennò sono dolori.
Noi vogliamo bene a papa Benedetto anche per altri motivi. Soprattutto per altri motivi.
Non vorrei darvi l'impressione di fare la difficile. Ne sono contenta.
Ma c'è qualcosa di fuffo.
Non so se mi sono spiegata.
Se vi sembro troppo complicata, ditemelo pure.

Raffaella ha detto...

Ho capito perfettamente ed e' quello che provo anche io.
Se il Papa dice o fa quello che piace ad alcuni giornalisti (diciamo quelli "radical chic") assistiamo ad incensazioni ed inchini, altrimenti sono dolori.
I media rispondono a questa logica ma noi no!
Per il semplice fatto che noi vogliamo bene al Papa sempre e comunque e non solo quando siamo in sintonia con i media.
Questa e' la differenza :-)
Grazie per l'articolo.
R.