venerdì 27 marzo 2009
Lettera del Papa ai vescovi, Ubaldo Casotto: "Una lettera indirizzata anche a me"
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Benedetto XVI
Una lettera indirizzata anche a me
di Ubaldo Casotto
Il fatto è assolutamente inusuale, straordinario, forse unico.
Giustamente, a proposito della lettera di Benedetto XVI sul caso dei quattro lefevriani, Vito Mancuso parla di «una mini enciclica».
Il teologo Mancuso, su Repubblica, spiega poi al Papa che 491 sacerdoti lefevriani non valgono «lo scisma sommerso che riguarda milioni e milioni di laici… divorziati e risposati, cui vengono negati i sacramenti».
Il sociologo Franco Garelli, sulla Stampa, gli dice che la Chiesa, di fronte al dilemma «se distinguersi dal mondo o adattarsi ad esso», deve essere più madre che maestra. I vaticanisti, di cui divoro con interesse le analisi, hanno accentuato la lettura "politica" della missiva papale in chiave di scontro interno alla Curia romana, con conseguente ricasco di teste tagliate e di nuove nomine.
Non sono teologo, ma concordo con Mancuso sull'importanza, da enciclica, di questa lettera. Non sono sociologo, ma sono d'accordo con Garelli quando scrive che «la Chiesa cattolica non è sondaggio-dipendente come lo sono invece le forze politiche e le reti tv» e che «non è che il Papa debba bucare il video a tutti i costi». (Al riguardo ricordo un aneddoto che mi è stato raccontato. Non ho mai potuto verificare se sia vero, ma lo ritengo molto verosimile. L'aneddoto dice che Joseph Ratzinger appena eletto, durante un colloquio con l'allora capo della Sala stampa vaticana Joaquín Navarro Valls, alla considerazione di questi sul fatto che viviamo tempi in cui la comunicazione e l'immagine sono molto importanti abbia risposto: «Credo invece che andiamo verso tempi in cui un'idea varrà molto più di qualsiasi immagine».)
Non sono vaticanista, ma credo che la lettura di scontro di potere della vicenda, legittima, non ne renda ragione fino in fondo.
Sono un fedele, un cattolico laico, con la mia dose quotidiana di peccati per i quali chiedo perdono alla Chiesa e non pretendo che la Chiesa e Gesù Cristo si scusino con me perché io le sono infedele, ma in questi giorni - scusate il desiderio - vorrei essere un vescovo. E se fossi vescovo, ricevuta quella lettera, oltre a manifestare pubblico sostegno all'iniziativa del Papa, come tanti episcopati stanno facendo, la stamperei in migliaia di copie, in milioni di copie, e la distribuirei a tutte le parrocchie, a tutti i conventi, a tutte le associazioni, a tutti i movimenti, chiedendo di distribuirla a loro volta, di leggerla in chiesa, di fare incontri per capirla, per approfondirla.
Ecco che cosa ne ho capito io.
Primo, non mi sembra questo un Papa che tema la parresia, «la franchezza di rapporti e di parola tipica della Chiesa apostolica» (Mancuso), anzi.
Quello che lo ha addolorato non è stata la discussione, ma la «veemenza» degli attacchi «come da molto tempo non si era più sperimentata».
Non che l'uomo Joseph Ratzinger non sia abituato alla lotta, ha fatto il 68 in una università tedesca, ha attraversato come frangiflutti dottrinale il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, quello che i maitre à penser adesso rimpiangono, come rimpiangevano quello di Paolo VI durante il regno di Woytjla, e quello di Giovanni XXIII negli anni di Montini. Basta riguardarsi le rassegne stampa delle rispettive epoche per far tornare la memoria ai nostalgici. Gli attacchi non sono mai mancati, e d'altronde non c'è da stupirsi, non si capisce perché il mondo dovrebbe amare la Chiesa - dice Eliot - « Perché gli uomini dovrebbero amare le sue leggi? / Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare./ È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri./ Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli./ Essi cercano sempre d'evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d'essere buono».
Ma è il fuoco dalle retrovie quella che dà più amarezza, quello che ha «rattristato» il Papa, quello dei cattolici che riguardo al significato del «gesto discreto di misericordia» verso quattro vescovi scomunicati (del quale limiti ed errori sono stati ampiamente spiegati e commentati, senza che si debba qui rifarlo) «avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose» e invece «hanno pensato di dovermi colpire con un'ostilità pronta all'attacco». Qui ci si può sbizzarrire (e i giornali l'hanno fatto) negli elenchi di prelati, curiali e no, schierati su fronti contrapposti.
Ma non è questa cosa che si debba spiegare noi al Pontefice che da cardinale parlò ufficialmente e solennemente di «sporcizia nella Chiesa».
Vale piuttosto la pena di seguirlo nel suo ragionamento, perché è vero, come dice sempre Mancuso, che «gli uomini d'oggi possono rinunciare a tutto ma non al pensare con la loro testa» (anche se a volte si ha la sensazione contraria che non rinuncino a niente tranne che al pensare), ma bisogna riconoscere che anche Joseph Ratzinger ha una testa, e la fa funzionare bene, ed è segno di intelligenza, quando si incontra un pensiero forte provare a capirlo seguendolo, è il normale processo dello sviluppo della civiltà.
Ora, cosa dice il Papa a proposito dell'annosa questione per cui si legge la vita della chiesa in chiave di conservatori e progressisti?
Dice che è una stupidaggine perché «non si può congelare l'autorità magisteriale della Chiesa all'anno 1962… e chi vuol essere obbediente al Concilio deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l'albero vive». Su questa vicenda dell'albero e delle radici si fa, secondo me, molta letteratura, senza afferrare il pensiero del Papa. Per capirla, sempre secondo me, bisogna usare la categoria con la quale egli, nella Deus Caritas est, identifica la Chiesa e il cristianesimo: un avvenimento. L'albero è questo, un avvenimento presente e vivo oggi. E le radici non sono i principi ispiratori della nostra civiltà (le famose radici giudaico-cristiane sulle quali ci si accanisce pro o contro) perdute nel tempo, sono oggi il nutrimento dell'albero. Se io voglio difendere le radici (e con esse una certa civiltà) devo difendere l'albero. Non è la Chiesa che deve difendere la civiltà libera e liberale, ma la civiltà libera che deve difendere la possibilità della Chiesa di esistere, con le forme vive e concrete in cui si articola oggi, pena la dissoluzione di sé stessa. Questo è il principio di libertà religiosa non astrattamente inteso. Al di fuori della categoria di avvenimento anche la presenza e la vita della Chiesa viene ridotta all'osservanza di regole, a un moralismo: di destra con tutte le accentuazioni liturgiche e dottrinali del caso) o, oggi più diffuso, di sinistra (con tutto il carico di osservanze sociali in cui impegnarsi).
La Chiesa è altro, dice Benedetto XVI, e in un «momento della storia in cui Dio sparisce dall'orizzonte degli uomini e l'umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più», la «priorità che sta al di sopra di tutto è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio». Noi possiamo dubitare di questo giudizio, ma non possiamo mettere in dubbio che il Papa ci creda. La «logica conseguenza» di questa priorità è «l'unità dei credenti».
So che sul rapporto verità-unità ci sono intere biblioteche, ma qui io capisco una cosa semplice: l'unità si fa intorno alla priorità indicata, non è il frutto di un compromesso al ribasso sui valori da difendere (e può convivere, come dinamica, «con molte cose stonate - superbia, saccenteria, fissazione su unilateralismi etc» ad esempio, anche perché se la Chiesa fosse fatta solo degli uomini perfetti che noi vorremmo imporle, nessuno di noi potrebbe entrarvi).
Un'ultima cosa, se fossi vescovo, farei di questa mini enciclica. Prenderei quella frase sintetica a metà della lettera e ne farei il programma di una catechesi: «L'impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l'amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità della Chiesa».
Di fronte alla riduzione della fede a sentimento forse andrebbe rispiegato che cosa vuol dire che la fede è invece un metodo di conoscenza. Di fronte alla nebulosità con cui viene usata la parola speranza, o al cinismo con cui viene respinta, forse varrebbe la pena riproporre quell'«attender certo» di cui parlava Dante, magari non lasciando lettera morta l'enciclica Spe Salvi, potrebbe essere utile. E poi l'impegno faticoso per "l'amore nel mondo", cioè per la carità, un'altra parola che ha perso senso e densità: quella capacità di volere il bene dell'altro sino al dono commosso di sé e della propria vita per lui, quella pietà gratuita per il niente dell'altro di cui, se siamo onesti, dobbiamo riconoscere di essere oggetto per il solo fatto di esistere (anche qui l'enciclica di riferimento non ci manca).
Ma io vescovo non sono.
© Copyright Il Riformista, 15 marzo 2009
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4 commenti:
articolo molto molto bello.
io quando ho letto la lettera del Papa in questione sono rimasto zitto 3 giorni,mi ha sconvolto,per la fede e la lucidità e la grandezza di Benedetto.
io non esagero nel ritenere questa lettera la più bella pagina di patristica moderna.
Papa benedetto è Padre e Dottore della chiesa oltre che Pontefice,queste righe sono alte e stanno alla pari delle più belle e intense di sant'Agostino di Ippona.
grazie Raffa.
Come mi piace vedere che in questo blog c'è tanta comunione di spirito e che sperimentiamo gli stessi sentimenti e pensieri:
"io non esagero nel ritenere questa lettera la più bella pagina di patristica moderna.
Papa benedetto è Padre e Dottore della chiesa oltre che Pontefice,queste righe sono alte e stanno alla pari delle più belle e intense di sant'Agostino di Ippona."
Bravo Massimo!
"grazie Raffa."
Ops, volevo includere anche questo.. :-)
:-)))
R.
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