venerdì 15 maggio 2009

Il viaggio del Papa in Terra Santa: il bilancio di Apcom


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PELLEGRINAGGIO DEL SANTO PADRE IN TERRA SANTA (8-15 MAGGIO 2009): LO SPECIALE DEL BLOG

Il Papa lascia la Terra Santa: Non più muri. Israele freddo

"Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra!"

Il Papa che, sorridente, si fa poggiare sulle spalle la 'kefiah'. Il Papa che chiede una "sovrana patria Palestinese".
Il Papa che, davanti al muro israeliano in Cisgiordania (che gli israeliani preferiscono chiamare barriera difensiva), sostiene che "i muri si possono abbattere".
Papa Ratzinger lascia Israele spiegando di essere "amico" tanto degli israeliani quanto dei palestinesi, ma l'entusiasmo che lo ha accolto tra la gente della Cisgiordania non ha nulla a che vedere con il rispetto privo di polemiche aperte, ma venato di malumore e freddezza, con cui viene salutato a Tel Aviv.
Fin dalla lettura mattutina dei giornali, negli ambienti ecclesiastici si è capito che, nonostante tutti gli sforzi messi in atto dai collaboratori di Ratzinger, tra il Papa tedesco e lo Stato ebraico non è scoppiata la simpatia.
Benedetto XVI arrivava in Israele sulla scorta di una solida diffidenza, che affonda le radici nella sua biografia e nella sua coscrizione obbligatoria nella Hitlerjugend, e matura, nel corso degli ultimi mesi, con la revoca della scomunica al vescovo lefebvriano Williamson, vocale negazionista della Shoah, con la liberalizzazione della messa in latino e della sua preghiera del venerdì santo per la conversione degli ebrei (in verità modificata da Ratzinger proprio per venire incontro agli ebrei), con il sostegno dato dal Papa alla causa di beatificazione di Pio XII, accusato dagli ebrei di aver taciuto di fronte all'Olocausto.
Eppure Ratzinger - il teologo, il Papa e, prima ancora, il cardinale - ha più volte dimostrato attenzione e affetto per l'ebraismo. Nulla da fare.
Non manca chi, in Israele, lo apprezzi e lo protegga. Il Papa compie anche gesti simbolici rilevanti, come pregare in silenzio al 'muro del pianto'.
Allo Yad Vashem, però, qualcosa non funziona.
Ratzinger non cita la sua infanzia in Germania, non parla di nazismo, non pronuncia nessun 'mea culpa' per l'antisemitismo di stampo cristiano.
Sceglie un taglio più spirituale, quasi poetico, che prescinde dalla sensibilità che gli ebrei hanno per gli aspetti storici e politici della Shoah. E non viene capito.
Qualche rabbino - compreso il presidente del memoriale Lau - parla di "occasione mancata".
Qualcun'altro lo difende. "L'uomo non ha una personalità emozionale, e quello che volevano gli israeliani era un espressione emozionale che si collegasse al dolore degli ebrei", afferma David Rosen, pontiere dei rapporti tra Gran Rabbinato e Santa Sede.
"Le critiche riflettono un'aspettativa irrealistica fondata sul precedente di Giovanni Paolo II".
Proprio alla visita di Wojtyla nel 2000 - quando pronunciò, lui sì, una sorta di 'mea culpa' - fa riferimento il 'Jerusalem post', che definisce il Papa polacco una "rock star" e il Pontefice tedesco "freddo, distante".
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, prima di imbarcarsi sul velivolo El Al che lo riporta a casa (non prima di averlo fornito di carta d'imbarco), Benedetto XVI torna, in realtà, sul tema dell'olocausto.
Parla degli ebrei che "furono brutalmente sterminati sotto un regime senza Dio che propagava un'ideologia di antisemitismo e odio" e ribadisce che "quello spaventoso capitolo della storia non deve essere mai dimenticato o negato".
Il discorso non passa inosservato in Israele, molti apprezzano, ma di nuovo c'è chi mugugna perché non ha menzionato, neppure questa volta, le responsabilità storiche della Chiesa.
E' però l'intreccio tra politica e religione, tra ebraismo e Stato di Israele, tra islam e Territori palestinesi, che, per tutto il viaggio e ancora alla sua chiusa, non fa decollare le simpatie tra israeliani e Benedetto XVI.
Secondo il quotidiano 'Haaretz', i suoi discorsi in Terra Santa si sono trasformati in una "concorrenza tra israeliani e palestinesi sul riconoscimento delle loro difficoltà e sulla giustezza delle loro cause. I palestinesi hanno vinto la competizione".
Lasciato alle spalle il discorso di Ratisbona che aveva irritato il mondo arabo-musulmano (e che continua a essere criticato, ormai, solo dagli ambienti più radicali), la società palestinese ha reagisto entusiasticamente alla visita di Ratzinger a Betlemme, con tanto di tappa in un campo profughi, immagini televisive della 'papamobile' sullo sfondo del muro israeliano, parole a favore dei diritti della "Palestina".
I palestinesi - loro sì - sentono che Ratzinger usa il loro linguaggio, intercetta la loro sensibilità, dà voce alle loro sofferenze.
Ancora oggi, all'aeroporto di fronte a Netanyahu (che ha vinto le elezioni contestanto la soluzione di due Stati per due popoli), il Papa afferma, chiaro e tondo, che venga "universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti", e che "sia ugualmente riconosciuto che il Popolo Palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente".
Che "la 'two-State solution' divenga realtà e non rimanga un sogno".
E ancora: "Una delle visioni più tristi per me durante la mia visita a queste terre è stato il muro", afferma, per poi esprimere una preghiera affinché "i popoli della Terra Santa possano vivere insieme in pace e armonia senza la necessità di simili strumenti di sicurezza e di separazione".
I media israeliani rilanciano subito la notizia evitando di usare il termine "muro", a Ramallah Abu Mazen incassa un altro punto a suo favore.
"Non più spargimento di sangue!", ha detto il Papa davanti a Netanyahu e al presidente israeliano Shimon Peres, che lo ha accompagnato e sostenuto per tutte le giornate israliene di ratzinger. "Non più scontri! Non più terrorismo! Non più guerra! Rompiamo invece il circolo vizioso della violenza. Possa instaurarsi una pace duratura basata sulla giustizia, vi sia vera riconciliazione e risanamento".
Nei Territori palestinesi e nel resto del mondo arabo - dove i cristiani, peraltro, sono una minoranza ignorata se non perseguitata - queste parole vengono interpretate come un 'endorsment' alla linea dell'Autorità palestinese.
Anche in Giordania, del resto, dove è iniziato il viaggio papale, re Abdullah aveva spronato il Papa a chiedere la fine della "occupazione" dei palestinesi.
E, per uno slancio di accoglienza nei confronti del Pontefice che ama la messa in latino, aveva fatto distribuire ai giornalisti presenti ad Amman anche una traduzione nella lingua di Cicerone. "...denique gentes palestinorum videant finem occupationis dolorumque", vi si leggeva. Indirizzato al Romano Pontefice che suscita entusiasmi, ormai, anche nella terra di Maometto.

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1 commento:

sassso ha detto...

per me la soluzione piu giusta per il conflitto è la creazione di uno stato,per entrambi i popoli e per tutte le genti che vogliono viverci.Non capisco la necessità di 2 stati etnici,anzi di uno stato etnico,poi parlano di xenofobia...!!!