martedì 13 gennaio 2009

Quei figli - dice il Papa - non sono vostri. Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio (Corradi)


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QUEI FIGLI – DICE IL PAPA – NON SONO VOSTRI

Sono in buone mani. Fidiamoci di Dio

MARINA CORRADI

Domenica, Benedetto XVI ha battezzato dei bambini.
«Ne sono veramente contento», ha detto, con una semplicità che si è fatta, nell’austerità della Sistina, linguaggio familiare. E felici erano quelle madri, quei padri, che si vedevano battezzato dal Papa il proprio figlio: l’eco di quella gioia l’avevano scritto sulla faccia, e negli sguardi commossi e umanamente orgogliosi, fissi sul 'loro' bambino. Ma a queste madri, e padri, e a tutti gli altri padri e madri, Benedetto XVI ha detto una cosa importante, anzi fondamentale: «Il bambino non è proprietà dei genitori, ma è affidato dal Creatore alla loro responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché essi lo aiutino ad essere un libero figlio di Dio». Questi figli, ha detto dunque il Papa , non sono 'vostri'.
Affermazione non nuova, eppure per niente scontata in un tempo in cui di figli se ne hanno pochi, e su quei pochi, o quell’unico, si concentrano aspettative, e possesso. Provate a immaginare di dire a una coppia in contemplazione estatica del proprio primogenito davanti alla nursery di un ospedale: questo figlio, non vi appartiene. Come, non ci appartiene? – obietterebbero in molti.
Ma se ci somiglia così tanto, anzi, è identico a suo padre; ma se l’abbiamo voluto, e anzi programmato, e lo chiameremo come il nostro calciatore preferito – che bello, se gli somigliasse. Cosa significa, che questo figlio non è 'nostro'? Significa appunto che è di un altro, dice il Papa , fedele alla più antica tradizione cristiana: «Il battesimo è questo: restituiamo a Dio ciò che da Lui è venuto». Ciò che non ci può appartenere, in quanto non l’abbiamo fatto noi. E questo lo sanno più istintivamente le donne, o almeno quelle non totalmente distratte. Che quando sono incinte, e quando poi avvertono in sé i primi movimenti del bambino, hanno un istante di naturale stupore, al manifestarsi di quella vita spuntata da due infinitesimali cellule. E spesso, se si fermano a pensare, tremano: si sta formando il suo cervello, il suo cuore, e io non so neppure lontanamente come. La coscienza di questa abissale inadeguatezza oggi si declina facilmente in un’ansia: superesami, supercontrolli, ecografie continue a spiare, sospettose di 'difetti', il buio uterino. È il principio del possesso: 'nostro figlio', deve essere perfetto. È la propria pretesa sullo sconosciuto misteriosamente in arrivo. E d’altra parte, come liberarsi dalla paura, se nessuna scienza può davvero garantirci la piena salute di un figlio? La risposta per i cristiani sta proprio nella certezza che i figli appartengono a Dio. Che chi li ha suscitati dal nulla ne è il vero padre, colui che prima che la madre li concepisse già li conosceva, come dice un salmo. Un Dio padre che trae i suoi figli dentro un disegno buono, anche nella più estrema drammaticità. Questo 'altro' padre tacitamente presente è il punto di equilibrio fra la possessività viscerale che fa dei figli cose proprie, e l’abbandono alle pure istintive inclinazioni di quei figli cresciuti – in molti da trent’anni a questa parte – come senza alcun padre. Tra questi due estremi, di cui oggi vediamo ogni giorno esempi che smarriscono nelle cronache dei giornali, il Papa ricorda una antica terza via: «affidare i figli alla bontà di Dio», e insegnare loro a chiamarlo Padre.
Come un allargarsi del cielo sulle nostre preoccupazioni: cosa farà, dove andrà, chi diventerà. Come nelle parole di quel contadino di Charles Peguy, disperato perché i suoi bambini erano malati: che decide affidarli, anzi di metterli fra le braccia della Madonna, perché in realtà sono figli 'suoi'.
E se ne va poi sgravato da una troppo grande angoscia: comunque certo ora, per quei figli, di un destino buono.

© Copyright Avvenire, 13 gennaio 2009

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