giovedì 18 giugno 2009

Matteo Ricci, il gesuita del Seicento che unisce Cina e Vaticano (Vecchi)


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Matteo Ricci, il gesuita del Seicento che unisce Cina e Vaticano

Gian Guido Vecchi

Quando morì a Pechino, l’11 maggio 1610, l’imperatore «Figlio del cielo» concesse un luogo per la sua sepoltura, cosa mai accaduta per uno straniero.
Dopo quattro secoli, i cinesi lo conoscono ancora come Li Madou, il «Saggio d’Occidente». Una figura decisiva, quella di Matteo Ricci, il grande gesuita che fu pioniere delle missioni cattoliche in Cina, uomo di fede, di scienza e di dialogo tra culture millenarie.
Non a caso, dice Benedetto XVI, «il suo esempio resta anche oggi come modello di proficuo incontro tra la civiltà europea e quella cinese». Per questo la proiezione in anteprima mondiale del film-documentario Matteo Ricci, un gesuita nel regno del drago (Rai Eri-Cda servizi editoriali) è un evento che non ha solo un notevole valore culturale.
L’opera del regista Gjon Kolndrekaj, cinquanta minuti girati tra l’Italia e la Cina (da Macerata, patria di Ricci, a Roma alla Città Proibita) con il patrocinio della Compagnia di Gesù e il benestare del governo di Pechino, verrà presentata alle 21 di domani in Vaticano. Oltretevere si dice che alla proiezione siano attesi tra gli altri il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, il presidente della Cei Angelo Bagnasco e l’ambasciatore cinese in Italia Sun Yuxi.
L’essenziale, in ogni caso, è ciò che il Papa ha scritto a monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata, come viatico alle celebrazioni del quarto centenario della morte. L’elogio del gesuita che «dedicò lunghi anni della sua esistenza a tessere un proficuo dialogo tra Occidente e Oriente, conducendo contemporaneamente una incisiva azione di radicamento del Vangelo nella cultura del grande popolo della Cina». Qui sta l’esempio: «Non si può non rimanere favorevolmente colpiti dall’innovativa e peculiare capacità che egli ebbe di accostare, con pieno rispetto, le tradizioni culturali e spirituali cinesi nel loro insieme». Fede, diplomazia: il rapporto tra la Chiesa e Pechino è insieme difficile e strategico.
Ed è notevole che Benedetto XVI esalti lo stile del gesuita «modello di dialogo e di rispetto per le altrui credenze» che in Cina scrisse il Trattato sull’amicizia: «Quel che ha reso profetico il suo apostolato è stata la profonda simpatia che nutriva per i cinesi, per la loro storia, per le loro culture e tradizioni religiose». Matteo Ricci, osserva il Papa, riuscì ad evangelizzare «attuando una metodologia scientifica e una strategia pastorale» basate da una parte «sul rispetto delle sane usanze del luogo che i neofiti cinesi non dovevano abbandonare » e dall’altra «sulla consapevolezza che la Rivelazione poteva ancor più valorizzarle e completarle». Lo fa notare anche padre Federico Lombardi, portavoce vaticano e confratello di Ricci, nell’introduzione al libro che accompagna il documentario: «Padre Ricci impostò tutta la sua metodologia scientifica e apostolica su due pilastri, nonostante molteplici difficoltà e incomprensioni interne ed esterne: primo, i neofiti cinesi, abbracciando il cristianesimo, in nessun modo avrebbero dovuto venir meno alla lealtà verso il loro Paese; secondo, la rivelazione cristiana sul mistero di Dio non distruggeva, anzi valorizzava e completava quanto di bello e di buono, di giusto e di santo l’antica tradizione cinese aveva intuito e trasmesso».
Un precursore, insomma: «Possiamo veramente dire che il Ricci ha anticipato di quattro secoli il Concilio Vaticano II, con il concetto di inculturazione, di dialogo e di rispetto per le culture che la Chiesa ha approfondito in particolare negli ultimi decenni».

© Copyright Corriere della sera, 16 giugno 2009

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