venerdì 27 marzo 2009
Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman. «Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio» (Osservatore Romano)
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Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman
«Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio»
Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute al convegno "John Henry Newman oggi, logos e dialogo" in corso a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore.
di Fortunato Morrone
Il tema che mi è stato affidato è di bruciante attualità; pensiamo solo brevemente agli interrogativi posti dalle biotecnologie all'intelligenza della fede o alle sollecitazioni critiche rivolte al credente dalle scienze cosiddette esatte o dalle scienze sociali. Nel corso di quest'anno in cui si celebra il bicentenario di Darwin l'intelligenza dei credenti, e le esigenze che ne derivano per il discorso teologico, è ancora una volta provocata positivamente a dire la fede nel Creatore dialogando con chi non professa la nostra speranza. Pur mutando i tempi e le stagioni, il rapporto tra fede e ragione non è mai stato pacifico o scontato per quella pretesa tutta cristiana che confessa in Gesù il Logos del Padre fatto uomo. Per questa ragione propria della fede che ama la terra, fin dal tempo dei Padri, ha ricordato Benedetto XVI nel Convegno della Chiesa italiana a Verona, c'è stato un umanesimo cristiano capace di ammirare e promuovere ciò che di vero, di bello e di giusto è presente in ogni cultura e di cogliere attraverso l'alfabeto delle scienze la corrispondenza fra ragione e Logos, una corrispondenza ancora più radicale nell'annuncio cristiano del Logos incarnato culmine della rivelazione del Dio della vita, un Dio per gli uomini.
La fede non può tradursi in storia senza fare appello, anzi allearsi alla ragione. D'altra parte il filosofo tedesco Jürgen Habermas, epigono della Scuola di Francoforte, negli ultimi anni è tornato più volte a richiamare l'attenzione sulla necessità di un dialogo etico tra credenti e laici, svolto tra l'altro con l'allora cardinale Joseph Ratzinger.
I problemi e i drammi del nostro villaggio globale d'altra parte incrociano direttamente gli interrogativi centrali circa la condizione della fede oggi, in un contesto culturale a dir poco complesso segnato da un diffuso relativismo espresso dal cosiddetto "pensiero debole" post-moderno che predica l'irrilevanza della ricerca di risposte definitive contestando fortemente la possibilità dell'uomo di accedere alla realtà, alla verità, se mai ne esista una. Se fino a qualche decennio fa almeno in Italia qualcuno affermava che culturalmente non possiamo non dirci cristiani (Croce), oggi "gran parte dell'umanità ha imparato a vivere senza Dio". Il cristianesimo, con la sua proposta forte di umanesimo, è ormai divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Da qui nella complessa e variegata cultura odierna il cui orizzonte comune rimane il nichilismo, la negazione di ogni verità oggettiva è diventato il pilastro dogmatico del nuovo pensiero che come ha ammonito Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio si risolve inesorabilmente in "negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità". Il rifiuto sistematico del possibile accesso alla verità ha, infatti, ricadute antropologiche negative.
Il rapporto fede e ragione non è perciò un problema accademico, quanto piuttosto e anzitutto una questione pratica della speranza annunciata dai credenti in questo mondo e per questo mondo.
Ebbene ciò che oggi sembra essere posto in discussione è il legame profondo che unisce la persona con la realtà, un legame che fa parte dell'intimità della persona in quanto tale e che investe la sua coscienza. Posta di fronte alla realtà la persona interagisce con la sua razionalità facendola entrare nel suo orizzonte cosciente e in questo incontro con la realtà, la ragione stabilisce nessi di significato in relazione a tutti quei fattori che la riguardano. Il soggetto è così posto di fronte all'oggettività del reale interferendo mediante quella ragionevolezza che accoglie e si sottomette all'esperienza. Riconoscere che l'essere non dipende dal soggetto, che è parte integrante dell'essere persona, permette al singolo di essere leale con la realtà che si offre all'intelligenza evitando la trappola del soggettivismo.
Di fronte all'odierna deriva del nichilismo o dello scientismo, ecco come Newman replicherebbe a una tale visione riduttiva del reale e del soggetto. Siamo nella Grammatica: "Ci troviamo immersi in un mondo di fatti che noi usiamo continuamente perché non c'è nient'altro da usare (...) Io sono quello che sono oppure non sono niente... non posso evitare di bastare a me stesso perché non posso fare di me qualcos'altro, e cambiarmi significa distruggermi. Se non uso l'io che sono, non ho altro da usare".
La ragione va colta nella concretezza dell'esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità. Ora questa tensione è incomprensibile al di fuori dell'atto creativo di Dio il quale costituendo l'uomo come spirito incarnato, lo rende capace di Sé. Perciò la complessità dell'uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico. A Locke Newman rimprovera che "gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana". È una filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, la relega nell'angolo del sentimento privato che non fa "fede" in termini di conoscenza certa. A ben vedere, rileva Newman, l'ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all'intera realtà che non è riducibile né mossa da questa "ragione", ma da altre ragioni non meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione: è il buon senso dello "spirito filosofico" che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione iniziata da Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.
Ma separare la razionalità dalla totalità del soggetto, posto di fronte alla realtà con cui inferisce, con la capacità di giudicare e di concludere, fa intendere Newman, è contro la struttura stessa della mente umana. Si tratta invece di avere una visione della razionalità ben più ampia rispetto a questa tradizione filosofica. Certo Newman non si trova a dialogare con un pensiero debole, ma il problema di fondo per un credente rimane il medesimo: come rendere ragione della speranza ad ogni generazione che ne chiede conto. E soprattutto come mostrare che l'atto del credere in quanto è compiuto dal medesimo soggetto che nel suo relazionarsi con la realtà impiega una razionalità implicita, è il medesimo che utilizza un procedimento razionale esplicito simile al procedere argomentativo della scienza. Entrambi i movimenti razionali sono frutto della mente umana che non può essere assente nell'assenso che la fede richiede.
Quando nel processo mentale che conduce alla certezza personale viene posta una dicotomia tra ragione e fede, il semplice credente - sul terreno delle ragioni da esibire - è banalmente ritenuto un minus habens, un credulone, un tranquillo uomo religioso la cui fede è una semplice opinione ridotta a credenza. D'altra parte chi intendesse difendere la ragionevolezza della fede alla stregua dell'argomentazione scientifica con prove chiare e distinte, ridurrebbe i misteri della fede ad un'articolata esposizione di dati sillogisticamente controllabili, mentre il sottrarsi alla provocazione se pur arrogante della ragione relegherebbe i credenti in un intimismo religioso stucchevole e astorico. La difesa della fede non può prescindere dall'essere atto intellettuale dell'uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla Scrittura Newman nel decimo sermone universitario ribadisce che "è chiaramente impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di raggiungere la verità: il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l'esercizio della ragione... (tuttavia) la ragione non è necessariamente l'origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi".
In sostanza Newman si è trovato da una parte con una visione di una fede concepita come il classico "salto nel buio", con il conseguente abbandono di ogni pretesa di razionalità umana e fondata unicamente sul sentimento del cuore, tipico della confessione evangelical e, dall'altra, si è dovuto misurare con l'altezzosità di una certa razionalità scientista e positivista che, presente anche in una parte della teologia liberale del tempo, proponeva una lettura esclusivamente razionale della Rivelazione isolando la fede in un immanentismo chiuso al Trascendente, secondo la moda dell'esaltazione della ragione e della libertà di pensiero. In questo clima, così succintamente delineato, Newman, appellandosi alla ragionevolezza dell'atto di fede del credente, rivendicherà al cristianesimo "piena dignità culturale e filosofica", come ha ben argomentato Michele Marchetto nella sua ponderosa monografia introduttiva agli scritti filosofici di Newman.
"Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio, come concepisco io la questione: difficoltà e dubbio non possono assolutamente essere poste a confronto"; in questo famoso passaggio dell'Apologia Newman parla di sé, della sua esperienza credente, non razionalizzabile secondo le misure della ragione illuministica, ma ragionevole e sensata secondo la misura del cuore, lì dove la ragione è intimamente legata alla libertà e la persona è coinvolta totalmente, è interpellata ad offrire una risposta concreta, esistenziale con tutto il suo carico di rischio. Quest'ordine di idee fa da substrato, di conseguenza, al confronto che Newman ha sostenuto con le scienze naturali in piena fioritura nell'epoca vittoriana.
Negli anni dell'insegnamento ad Oxford il futuro cardinale annotava: "Il cristianesimo è stato descritto come un sistema che sbarra la via al progresso, in campo politico come in campo educativo o scientifico ... Il sentire sospetto e mostrare timidezza (da parte dei cristiani), nell'assistere all'ampliamento del sapere scientifico, equivale a riconoscere che tra esso e la rivelazione possa sussistere qualche contraddizione". Se la scienza è ricerca di verità, un possibile conflitto con la fede è frutto o di equivoci, o è una conseguenza della perdita dell'orizzonte veritativo dell'annuncio cristiano: solo l'arroganza della ragione o la miopia di una fede chiusa al dialogo possono creare quel terreno di ostilità o di contrapposizione che non poche volte ha caratterizzato, almeno dopo l'illuminismo, i rapporti tra il cristianesimo e le scienze. In questa via Newman forte della sua esperienza oxoniana, si impegnerà al progetto dell'Università di Dublino immaginata quale luogo del dialogo e del confronto tra le scienze e la teologia, scienza della fede, senza minimizzare il dato della conflittualità tra la scienza e le fede. Perciò Newman riteneva indispensabile un'università attrezzata teologicamente e culturalmente per non cadere da una parte nelle trappole del bieco dogmatismo religioso e dall'altra nei riduzionismi dello scientismo razionalistico, tipico dello spirito del tempo.
(©L'Osservatore Romano - 27 marzo 2009)
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