martedì 17 febbraio 2009

La parola ai tradizionalisti. Un libro intervista al capo dei Lefebvriani spiega chi sono e che cosa pensano (Vietti)


BENEDETTO XVI REVOCA LA SCOMUNICA AI VESCOVI LEFEBVRIANI: LO SPECIALE DEL BLOG

La parola ai tradizionalisti

Un libro intervista al capo dei lefebvriani spiega chi sono e che cosa pensano. “La Verità è solo nella chiesa”

di Piero Vietti

Intervistato dal giornale francese Le Nouvelliste, il superiore della fraternità San Pio X, monsignor Bernard Fellay, è tornato sulle assurde dichiarazioni sull’Olocausto del suo confratello e vescovo Richard Williamson, chiedendo di “lasciargli tempo” in quanto presto “si farà carico delle proprie responsabilità e darà una risposta sincera e vera”.
Il 21 gennaio il Papa aveva emanato il decreto di revoca della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità fondata da monsignor Lefebvre nel 1970, parlando della necessità di successivi colloqui per ripianare le controversie dottrinali che ancora rimangono.

Forse mal gestita dal Vaticano, e certamente pompata in una direzione sola da giornali e televisioni, la notizia non è stata commentata per il suo significato storico ma immediatamente contestata per via delle dichiarazioni fatte da Williamson a una televisione svedese alcuni mesi prima, ma mandate in onda pochi giorni dopo il decreto papale.

Nonostante la (quasi) immediata presa di distanze dalle dichiarazioni negazioniste di Williamson da parte di monsignor Fellay, opinionisti di mezzo mondo hanno cavalcato le sue parole per cercare di aprire una ferita nei rapporti tra Israele e Santa Sede (senza riuscirci) chiedendo a Benedetto XVI di tornare sui suoi passi o almeno di scusarsi per la “gaffe”. Sfruculiando i preti lefebvriani, si era poi trovato un altro sacerdote che ha fatto eco alle frasi di Williamson e dato ossigeno alle polemiche per qualche giorno ancora.

Fino a ieri monsignor Fellay aveva parlato soltanto per denunciare l’estraneità della sua congregazione alle parole dei due confratelli, senza avere mai l’opportunità di raccontare chi sono e che cosa pensano i cosiddetti levebvriani. Riesce a farlo oggi, in un libro intervista edito da Sugarco in libreria in questi giorni e intitolato Tradizione, il vero volto – Chi sono e cosa pensano gli eredi di Lefebvre, scritto da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, scrittori cattolici esperti di letteratura e bioetica, autori di diverse opere su Guareschi, Tolkien, Collodi e Conan Doyle, oltre a saggi di attualità religiosa. “E’ strano il mondo. Fino a una cinquantina d’anni fa monsignor Bernard Fellay, con gli argomenti sostenuti in questo volume, non avrebbe conquistato un briciolo di visibilità neanche sgomitando. Difficilmente, ammesso che gliene fosse importato qualche cosa, sarebbe approdato sui giornali. Fino a una cinquantina d’anni fa, però”, scrivono nell’introduzione i due autori. In effetti il dialogo con quello che dal 1994 è il superiore generale della Fraternità San Pio X si dipana su quelli che sono i capisaldi del Catechismo della chiesa cattolica, ma è vero che, notizia della revoca della scomunica a parte, hanno il sapore delle cose nuove pur essendo, appunto, “Tradizione”.

Ma forse sono nuove proprio perché sono tradizione: “Ciò che era verità ai tempi di Adamo ed Eva è verità anche oggi, ciò che era menzogna ai tempi di Adamo ed Eva è menzogna anche oggi, ciò che era buono al tempo di Mosè e dei faraoni è buono anche oggi, ciò che era giustizia al tempo dei romani è giustizia anche oggi. Qui si vede che l’essenza dell’uomo è sempre la stessa, la mente è sempre la stessa, il cuore è sempre lo stesso. Non cambiano mai”, spiega Fellay parlando della tradizione. Se l’uomo è sempre lo stesso ha bisogno sempre della stessa risposta, dunque. Parla di “realismo”, “felicità” e “ragione” per spiegare come “una legge divina sia stata scritta nei nostri cuori” e come il compimento per l’uomo sia seguire quella legge.

Ciò che impressiona di più leggendo la lunga intervista (e che sorprende, data la fama di “contestatori” che i seguaci di Lefebvre hanno etichettata addosso da tempo) sono le parole con cui Fellay parla dell’obbedienza al Papa, parole che assumono un peso specifico ancora maggiore, soprattutto in questi giorni in cui in tanti parlano di chiesa spaccata, timorosa e di un Benedetto XVI solo e inascoltato: “Il Papa non è solo. Tutti i veri cattolici, e non sono pochi, stanno con il Papa, non possono stare altrove. Noi siamo veri cattolici e siamo e vogliamo continuare a essere i più grandi sostenitori del Vicario di Cristo. Non possiamo fare altrimenti. Il cardinale Edouard Gagnon, quando venne in visita alla nostra Fraternità a Ecône, nel 1987, rimase stupito sentendo cantare ‘Tu es Petrus’ e disse che ormai bisognava venire lì per sentire pregare con tanto fervore per il Papa. Coloro che ci descrivono come ribelli non rendono servizio alla verità. Certo, ci sono dei punti di discussione molto importanti, molto profondi, ma questo non intacca il nostro amore e la nostra dedizione per il Santo Padre. Noi amiamo il Papa, vogliamo il Papa. Noi vogliamo il Papa nel pieno delle sue funzioni. Purtroppo constatiamo che la teologia prevalente degli ultimi decenni ha realizzato un vero e proprio golpe contro la sua autorità”.

Il golpe di cui parla Fellay trae linfa nella “collegialità”, già criticata dal fondatore della San Pio X: “Oggi, spesso, vescovi e conferenze episcopali si occupano di tutto, dall’emergenza rifiuti alla crisi economica, ma non dell’insegnamento della dottrina e della trasmissione della fede. Hanno acquisito una visione puramente orizzontale e hanno dimenticato quella verticale. Questo spiega la disobbedienza al Santo Padre: se si trattano questioni puramente umane, è logico che si abbiano punti di vista diversi, anche opposti. La cosiddetta collegialità, l’idea che l’insieme dei vescovi sia più importante del Santo Padre, qui mostra tutti i suoi effetti. Nostro Signore non ha istituito la chiesa in questo modo, non ha fondato le conferenze episcopali. Quando si dice “il Vaticano” si dovrebbe intendere lo strumento al servizio del potere papale. In realtà, l’impressione è che esso si sia trasformato in un agglomerato burocratico che in parte neutralizza l’autorità papale e in parte esercita un potere in proprio. Tant’è vero che spesso si dice “il Vaticano ha detto”, “il Vaticano fa”, ma nella realtà non si sa neppure chi abbia detto, sostenuto o fatto qualche cosa”.

Suona strano che a difendere l’autorità del Papa sia l’erede di Marcel Lefebvre, che a suo tempo gli disobbedì. Spiega Fellay: “Noi abbiamo solo messo in evidenza un problema: che ciò che la chiesa ha detto e insegnato per duemila anni, a un certo punto, è stato contraddetto. Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale può rilevare che qui non c’è l’imposizione di un parere, ma una pura e semplice constatazione. Il problema non sta nelle nostre scelte, ma in un fatto che non dipende da noi. Chiunque nella chiesa, compreso il Santo Padre, dica qualche cosa che contraddica la dottrina commette un errore, e nessuno può essere obbligato a seguire l’errore. Anzi, quando l’errore è evidente, bisogna dirlo. Se un padre dovesse improvvisamente contraddire gli insegnamenti su cui si basa la vita della sua famiglia, i figli sarebbero obbligati a non obbedirgli e a spiegargliene i motivi. Questo per la sopravvivenza stessa della famiglia. Se non lo facessero non sarebbero figli saggi e devoti, mancherebbero di carità”.

La questione, si sa, è molto controversa e complicata, ma è pur vero che non solo i lefebvriani sostengono che ci siano differenze sostanziali tra il Concilio Vaticano II e tutti i precedenti concili, e come questo fosse piuttosto un concilio pastorale e non dogmatico, tanto che lo stesso Benedetto XVI ha chiesto a un gruppo di tradizionalisti uno studio critico dei documenti conciliari.
Documenti peraltro tutti firmati da monsignor Lefebvre all’epoca, anche se per il suo successore il Concilio è stato causa, tra l’altro, della crisi delle vocazioni sacerdotali: “Nel Concilio è evidente la volontà di parlare di molte persone che appartengono alla chiesa, dal laico al vescovo, ma ci si è dimenticati del sacerdote. […] Il sacerdote ha perso la sua identità e non sa più chi sia. Lo si vede sotto tutti gli aspetti, dalla vita di pietà alla pratica liturgica, dalla cura delle anime alla vita privata. Se penso a quanti sacerdoti hanno abbandonato il ministero in questi anni, sento i brividi lungo la schiena. […] Da questo punto di vista, la riforma liturgica, che ha messo in secondo piano l’aspetto sacrificale della messa a favore di quello assembleare, ha dato un colpo tremendo. Il sacerdote viene trasformato nel presidente di un’assemblea”.
Secondo Fellay, questo è uno dei segni della “protestantizzazione” della chiesa, così come l’idea di “Popolo di Dio” introdotta con la “Lumen Gentium”: “La comunità prende per forza il sopravvento sul sacerdote, che diventa uno dei tanti. Oggi si constata persino l’assurdo di sacerdoti che arrivano in una parrocchia e dichiarano di non essere lì per insegnare, ma per imparare. E’ doppiamente drammatico. […] Il concetto di ‘Popolo di Dio’ ha agito come mito anti istituzionale generando l’idea che il vero problema della chiesa fosse quello di liberarsi delle sue figure istituzionali, cominciando dal papato. Ecco perché il ruolo del sacerdote è stato sminuito: perché è sempre stato il cardine dell’istituzione sul territorio, tra i fedeli. Non è un caso se gli unici sacerdoti che, a un certo punto, hanno cominciato a godere di buona stampa sono stati i cosiddetti ‘sacerdoti scomodi’, quelli che contestavano l’istituzione”.

C’è poi la nota avversione dei seguaci di Lefebvre per la “messa nuova”, e il favore con cui il motu proprio di Benedetto XVI che dà la possibilità di celebrare il vecchio rito è stato accolto dalla San Pio X: “La messa nuova, quella della riforma postconciliare, ci è estranea. Comporta un mutamento di orizzonte e costringe l’uomo a guardare per terra. Ma per terra si guarda in ogni altro momento della giornata…”; cita un americano che parlando della messa in latino gli ha detto: “Una volta non si capiva tutto, ma si comprendeva benissimo che cosa stesse accadendo. Oggi, si capisce tutto, ma non si comprende più che cosa stia accadendo”.
Certo non sarà la messa in latino a riportare la fede nel mondo, ma certo questo può essere un primo passo per arrivare a sciogliere i nodi dottrinali che ancora dividono i lefebvriani dalla Santa Sede. Ieri però, nell’intervista al Nouvelliste, Fellay ha chiesto “chiarimenti urgenti” sulla revoca della scomunica e sulla reintegrazione nella chiesa cattolica: parlando del dialogo con Roma, il superiore ha detto che la Fraternità dovrà sì accettare le conclusioni del Concilio Vaticano II, “ma la Santa Sede non può conferire oggi al concilio più autorità di quanta quest’ultimo abbia voluto concedersi”.
Il Papa “tiene profondamente alle novità del Concilio Vaticano II. Bisognerà vedere in che modo queste divergenze dipendono da una filosofia differente. Abbiamo già risposto affermando la nostra volontà di affrontare con spirito positivo il cammino di discussione. Ma non vogliamo farlo con precipitazione”.

Nel libro intervista Fellay non usa giri di parole per criticare certe “debolezze” della chiesa di oggi, come quella di una definizione sbagliata di ecumenismo il cui errore fondamentale – passato in parte del pensiero cattolico – “sta nell’idea che lo Spirito Santo si serva di tutte le religioni come mezzi di salvezza. Questa idea è sempre stata combattuta dalla chiesa”.
Per spiegare i “frutti dell’ecumenismo” non risparmia critiche al cardinal Kasper, presidente del Consiglio pontificio per l’Unità dei Cristiani, che afferma ad esempio che “il nostro valore personale non dipende dalle nostre opere, siano esse buone o cattive: ancor prima di agire, siamo stati accettati e abbiamo ricevuto il ‘sì’ di Dio”, affermazioni più protestanti che cattoliche secondo il superiore della San Pio X.
Il tono a tratti duro di monsignor Fellay non deve essere scambiato con un altro attacco dall’interno alla chiesa, ma una critica di chi in realtà alla chiesa ha dedicato la sua vita e che, come dice per spiegare il successo del guareschiano don Camillo, “non fa sconti sul vero”.
E parlando ieri al Nouvelliste, ha aggiunto che “nel momento in cui si parla di ritorno alla piena comunione, forse, in effetti, il Papa si sta domandando chi, tra certi vescovi e noi, è più vicino a lui”.
Lungi dall’essere pessimista, Fellay è certo che “il disegno di dissolvere la chiesa cattolica non arriverà mai a compimento”. Anche se, prosegue, “la situazione oggi è più pericolosa perché più subdola, si cerca di erodere le mura portanti dall’interno”.

Il dialogo con Gnocchi e Palmaro continua toccando altri temi di cui spesso non si sente più parlare nelle prediche domenicali: la necessità del recupero della “regalità sociale” di Gesù Cristo, il liberalismo che porta anche personalità pubbliche a separare la fede dall’azione politica e il tema della “libertà religiosa”, che per Fellay “esiste veramente, ed è la libertà della vera religione”, una frase che presta il fianco all’accusa di “integralismo”. Ma Fellay non ha incertezze su questo: quando si dice che la persona umana ha il diritto della libertà religiosa, “non si considerano situazioni concrete, anche se molto frequenti, che consiglierebbero uno spirito permissivo e la tolleranza, […] al contrario, si prescinde dai fatti concreti e si stabilisce come principio che ogni uomo ha il diritto di permanere nell’errore secondo la propria coscienza, sia in privato sia nella vita pubblica. […] In altre parole, altro è tollerare l’errore e altro è assegnargli per principio la stessa dignità che ha la verità”.
A questo è collegato il discorso sulla libertà, che “non è un assoluto”, né è la possibilità di scegliersi il fine per cui si è fatti, ma, dato che il fine ultimo di tutti gli uomini è lo stesso, cioè la felicità, la libertà sta “nella scelta dei mezzi per raggiungerlo”.

Il discorso si sposta su tematiche per certi aspetti dimenticate o “vecchie”: dalla figura della donna, che nella famiglia “ha un ruolo diverso” dall’uomo “pur essendo pari i diritti”, alla morale sessuale passando per il concetto, dimenticato, di peccato (“Se l’uomo nega Dio, nega l’idea di peccato. Se nega l’idea di peccato, nega la necessità della redenzione. Se nega la necessità della redenzione, nega la necessità del sacrificio e dello sforzo per vincere i propri difetti. Ne consegue che si pone al posto di Dio”), fino all’esistenza dell’Inferno (“Non si può parlare della misericordia di Dio senza parlare della sua giustizia”).
Infine, Lutero, Kant e Marx sono “le tre figure che hanno segnato la storia in maniera tragica” mentre “tutti i santi” sono da guardare come modelli, perché “alla chiesa non servono intellettuali, servono santi”, e agli uomini “serve la Verità, che si trova solo nella chiesa”.

© Copyright Il Foglio, 17 febbraio 2009 consultabile online anche qui .

1 commento:

Anonimo ha detto...

Raffa, penso sia nuovo. La casa editrice è Sugarco.
Alessia