domenica 18 gennaio 2009
Card. Ouellet: «Il fatto che mi ha più colpito del Sinodo? L’unità» (Tracce)
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Tracce N.1, Gennaio 2009
SINODO
La Parola di Dio accade
a cura di John Zucchi
«Il fatto che mi ha più colpito del Sinodo? L’unità». Il Primate del Canada traccia un bilancio dell’evento che ha segnato la vita della Chiesa. Parlando dell’incontro con Cristo.
Del rapporto tra fede ed esegesi. E dei movimenti, «frutti maturi di cui abbiamo bisogno»
A due mesi dalla fine dei lavori diventa sempre più chiaro come l’ultimo Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio sia stato davvero un momento importante, con quella forte sottolineatura di una Parola vivente che riconduce all’incontro con una Persona, non un fatto del passato. Come relatore generale del Sinodo, Benedetto XVI ha scelto il cardinale Marc Ouellet, 64 anni, arcivescovo di Québec e primate del Canada, una diocesi che alla fine del XVII secolo si estendeva per quasi tutto il Nordamerica, fino al Pacifico e al Golfo del Messico. Tracce lo ha incontrato nel suo studio in Arcivescovado, nel bel palazzo all’interno delle antiche mura cittadine. È stata l’occasione per abbozzare un bilancio, ma anche per guardare al compito che quel momento ha affidato alla Chiesa e, in particolare, ai movimenti.
Eminenza, che cosa l’ha più colpita del Sinodo?
Di tutto il Sinodo mi ha colpito l’unità. Sì, l’unità. Ho percepito che c’era un tema unificante, che riguardava tutti. È stata davvero un’esperienza di unità intorno a una missione comune a tutta la Chiesa, e oggi più che mai urgente: l’annuncio della Parola di Dio con una forza nuova, una luce nuova; e nello stesso tempo la consapevolezza che la condizione del mondo esige una nuova testimonianza da parte della Chiesa di essere, nella sua missione, al servizio della Parola di Dio. Parola, sì, ma di Dio! C’è una consapevolezza nuova che la Parola di Dio debba essere annunciata senza il filtro delle interpretazioni. Bisogna ridare alla Sacra Scrittura il senso di Parola di Dio. Di tutto il Sinodo mi ha colpito questo.
Nella sua relazione dopo il dibattito lei ha scritto che «la Parola di Dio che si comunica a noi nella Rivelazione porta in se stessa una struttura profondamente dialogica: ci chiama al dialogo con quel Dio che parla e si rivolge a noi come a degli amici». Può spiegarci meglio la relazione tra Parola di Dio e questo dialogo d’amicizia?
Dio è in sé dialogo. Lo sappiamo grazie alla fede: Egli, in se stesso, è dialogo, relazione. Ci ha fatto creature a sua immagine, pertanto ciò che Lui è si prolunga nel dialogo che vuole avere con noi. La sua Parola è dunque il mezzo che Egli ci dà per l’incontro personale con Lui, per dialogare con Lui; non solo Egli ha voluto darci delle informazioni sulla sua natura, ma ha voluto anche avere un rapporto personale con noi. È questo l’accento che ho voluto rimarcare: la Parola di Dio è un incontro personale, come dimostrano nella storia i molteplici incontri della Parola con i profeti, con le comunità. Un incontro che culmina in Gesù Cristo, che è il Verbo stesso di Dio che ci è stato dato per parlare con Lui, per giungere al cuore stesso di Dio, per partecipare, per così dire, al dialogo interiore di Dio stesso. C’è tutta la visione trinitaria del cristianesimo che è all’origine di questa rivelazione attraverso la Parola.
E in che modo il Sinodo ha segnato un passo nella consapevolezza storica di questa Rivelazione?
Credo che ci sia stata una netta ripresa della svolta avviata a partire dalla Dei Verbum, la costituzione sulla divina Rivelazione del Concilio Vaticano II, in cui vi è proprio un allargamento della nozione di Rivelazione. Dapprima si insisteva piuttosto sul Concilio Vaticano I e sulla costituzione Dei Filius a proposito delle verità. La Rivelazione era concepita come un insieme di verità plurali, da conoscere e professare. Ciò rimane vero, ma il Concilio Vaticano II ha voluto personalizzare di più la Rivelazione, presentandola come l’“autocomunicazione” personale di Dio; dunque ne ha parlato al singolare, in quanto rapporto personale che Dio stabilisce con la sua creatura. E questo alla luce di Cristo. Il Concilio Vaticano II è stato molto cristocentrico. Il cuore del Concilio era la ricentratura su Cristo: Cristo inteso non, semplicemente, come una verità tra le altre, ma come pienezza della Rivelazione. Egli è la verità personale di Dio incarnato, attraverso la quale noi entriamo in comunione personale con Dio tramite la fede. Credo dunque che il Sinodo abbia voluto riprendere questa novità, questa concezione più profonda della Rivelazione come avvenimento o incontro personale di Dio. Altrimenti si rimane fermi a delle comunicazioni intellettuali della verità. Ed era un po’ il difetto della prospettiva precedente, il suo limite. Ho sottolineato il paradigma mariano della Rivelazione, invece del paradigma intellettuale di un libro in fondo da studiare. La parola di Dio invece accade veramente. È per questo che ho assunto la scena dell’Annunciazione come emblema del luogo dell’incontro, in cui Maria reagisce in prima persona e si abbandona profondamente alla volontà di Dio di incarnarsi in lei. Maria dona a Dio tutta la sua persona: questo è il paradigma che dobbiamo ritrovare, un paradigma dialogico. Nella scena dell’Annunciazione assistiamo al dialogo tra il Dio trinitario e Maria.
Durante il Sinodo è più volte emersa la questione delicata della tensione tra esegesi biblica e teologia. È una tensione dovuta ad approcci differenti o è piuttosto un problema più profondo, vale a dire una questione di fede?
È una questione più profonda. Il Sinodo riafferma che lettura ed esegesi della Sacra Scrittura devono farsi nella fede, e che la fede non è qualcosa di “estraneo” rispetto al carattere scientifico dell’interpretazione della Scrittura. Anzi, è interna a questo carattere scientifico. Dato che la Sacra Scrittura è il libro della fede, essa non può essere capita e approfondita se non all’interno della fede, valendosi naturalmente di tutte le risorse della ragione. Non si tratta di lasciare la ragione alle spalle. Si tratta di includere la ragione in un orizzonte di comprensione più ampio, più profondo, che non le si contrappone, ma anzi la integra nel suo proprio lavoro interpretativo. C’è dunque un nuovo rapporto fede-ragione dettato dall’orientamento del Sinodo. L’esegesi scientifica estranea alla fede è una problematica moderna che va superata, perché nell’interpretazione della Scrittura ha causato un danno dietro l’altro. Si può certo sottolineare molto la diversità dei libri e dei testi biblici, ma ciò che crea unità è l’unico Spirito che presiede agli avvenimenti e alla memoria degli avvenimenti: lo Spirito di Dio. Ciò che chiamiamo esegesi spirituale o esegesi teologica deve essere più sviluppato, il che significa che si apre un nuovo capitolo nel dialogo tra pastori, teologi, esegeti e popolo di Dio. Con questo Sinodo si apre proprio un bel capitolo a questo proposito.
Don Julián Carrón è stato sollecitato dall’esperienza del Sinodo a rileggere l’intera storia di Comunione e Liberazione articolandola in tre fasi. Ha chiamato la fase presente, la terza, «il carisma per la Chiesa e per il mondo», chiedendo ai membri di Cl di essere sempre più disponibili a servire la Chiesa ovunque, specialmente dove la nostra collaborazione è richiesta e accolta. Dal suo punto di vista, dove pensa che il contributo del movimento sia più atteso?
È proprio del carisma di Cl, certamente, un certo modo di intendere il rapporto tra fede e ragione. È la forza del movimento, e lo dimostra la sua affinità particolare con questo papa, Benedetto XVI. Si tratta di una testimonianza di fede fondamentale, totalizzante, che include la dimensione della ragione. La via di Cl è fondata molto esplicitamente su Cristo, con un’adesione integrale, totale. Allo stesso tempo c’è un’insistenza sull’intelligenza e la dimensione razionale della vita: nella cultura, nella filosofia, nell’interpretazione della realtà. Ciò che mi ha colpito e di cui c’è più bisogno, direi in tutti i contesti dove vi trovate, dall’università agli ambiti professionali, è questa armonia tra fede e ragione di cui siete testimoni, ma pur sempre testimoni ancorati nella fede. E poi anche il vostro insistere sulla realtà della vita: lo sguardo sulla realtà come sguardo più profondo, che vede più di ciò che si vede normalmente, che scorge i segni della presenza di Dio. In questo senso, c’è un grande apporto che potete dare. È evidente che si tratta anzitutto di dare una testimonianza; una testimonianza di coerenza entro un’esperienza di fede e una testimonianza che comprende l’esigenza di difendere alcuni diritti, per esempio riguardo all’educazione. Sapendo bene che una testimonianza del genere comporta dei rischi, perché nel momento stesso in cui aiuta a creare una coscienza ecclesiale essa ispira, stimola, risveglia, ma al tempo stesso disturba. In fondo, è quello che succedeva a Cristo. Davanti a Lui c’era lo stesso tipo di reazione: di adesione o di rifiuto, ma mai indifferenza. Vuol dire che questa testimonianza è della stessa natura...
Il Sinodo ha dato moltissimo peso ai temi della missione e della testimonianza, in contrapposizione a una lettura della Parola che vedrebbe Cristo come un «fatto del passato». Un testimone rivela al mondo i lineamenti inconfondibili del volto di Cristo. Come possono i movimenti ecclesiali servire la Chiesa in questo compito?
Completo la mia prima risposta. Ciò che mi ha colpito del Sinodo è l’unità, e allo stesso tempo l’entusiasmo. Perché l’unità? Per più ragioni. Innanzitutto c’erano i vescovi, c’era il Papa e c’erano i movimenti. E di questo tema ho già parlato. Secondo: il Papa è al suo quarto anno, e oggi la sua presenza e la sua guida sono tangibili; al Sinodo era evidente che l’unità dei vescovi era dovuta in buona parte alla sua guida, dolce e insieme risoluta. Terzo: la presenza dei movimenti. Uditori e uditrici avevano al Sinodo un ruolo importante. Hanno parlato e dialogato, e dagli interventi si è percepita una forte complementarietà dei movimenti e altresì una maturità da parte loro. I movimenti ecclesiali sono divenuti una grande forza e un punto di riferimento nella Chiesa. Essi sono riconosciuti e lavorano insieme non in una sorta di “concorrenza”, ma in modo complementare: trovo che sia un segno straordinario dei tempi.
In che senso?
A fronte di un mondo colpito, soprattutto in Europa, da una forte ondata di secolarizzazione, l’unità della Chiesa cattolica è il solo baluardo che abbiamo contro il secolarismo. Ed è per questo che l’esperienza del Sinodo è stata straordinaria. Un’esperienza al contempo di unità, di forza spirituale e di consapevolezza che la parola di Dio è Cristo vivente: Cristo vivente in mezzo a noi, che ci accompagna come sulla strada per Emmaus, dandoci la forza della sua Resurrezione e rimettendoci in gioco dentro un annuncio che porta frutto. Il futuro dei movimenti è di continuare a lavorare insieme, in modo complementare, cosa che si è sviluppata a partire dalla Pentecoste del 1998. Mi ricordo il primo grande incontro dei movimenti nel 1998: da allora c’è stata una maturazione continua. C’è una nuova stagione dei movimenti, stagione di frutti maturi. E Dio sa che la Chiesa ne ha bisogno.
© Copyright Tracce n. 1/2009
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