mercoledì 14 gennaio 2009

Mons. Jean-Louis Bruguès: Povero quel paese che non saprà approfittare delle scuole cattoliche (Amicone)


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Jean-Louis Bruguès

Povero quel paese che non saprà approfittare delle scuole cattoliche

di Luigi Amicone

È nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre, piccolo borgo degli Alti Pirenei francesi. E fino all’11 novembre 2007, allorché Benedetto XVI lo promosse da vescovo di Angers ad arcivescovo e segretario della Congregazione per l’Educazione cattolica, monsignor Jean-Louis Bruguès non avrebbe mai immaginato di essere chiamato a svolgere la vocazione di sacerdote dell’ordine dei Predicatori domenicani nelle prime linee dei seminari, delle università e delle scuole cattoliche. Attualmente, al segretariato per l’Educazione cattolica fanno riferimento 1.300 università, 250 mila scuole e 2.700 seminari disseminati in tutti i continenti (eccetto Africa e Asia, dove le altrettante migliaia di scuole e seminari cattolici rispondono ad altri dicasteri della Santa Sede). Ambiti in cui, come è noto a chi sta in quelle trincee, l’esperienza millenaria della Chiesa si trova oggi a raccogliere la sfida di un’offensiva secolarista senza precedenti. Tempi ha incontrato monsignor Bruguès nel suo ufficio di Piazza Pio XII, a Roma, antistante il Cupolone di San Pietro.

Monsignor Bruguès, quali sono i cardini di una “educazione cattolica”?

Prima di rispondere alla questione, non facile, che lei pone, mi permetta un’osservazione preliminare. Siamo in un tempo in cui la società è caratterizzata da grandi cambiamenti. Ne sottolinerei due, che fotografano bene la situazione in Occidente: il pluralismo culturale e il trionfo del liberalismo. Ora, in questo tipo di società, cosa definisce la specificità di un scuola cattolica? È un tema che mi appassiona molto. Anche perché, da vescovo di Angers, città dove oltre il 40 per cento delle scuole sono cattoliche, ho avuto modo di misurarmi con le problematiche riguardanti la nostra presenza in una società plurale e liberale. Da questa esperienza sul campo deduco che quando hai un problema di identità, tanto per cominciare, chiedi soccorso all’etimologia. Cosa significa l’aggettivo “cattolico”? Cattolico significa “universale”. E in effetti le nostre scuole sono cattoliche se hanno una dimensione universale. In due sensi. Primo, apertura all’universo del sapere e, secondo, apertura a tutti. L’altro aspetto dell’aggettivo “cattolico” è la confessione di una fede specifica. Per qualificare un’educazione come “cattolica” non trovo altro, almeno sull’essenziale, che queste due caratteristiche. Da una parte la scuola cattolica è universale, aperta, è eminentemente curiosa, curiosa di tutto. Dall’altra si qualifica per la specificità della propria identità. Dobbiamo trovare un equilibrio sottile entro l’universale e il confessionale. Ci riusciamo sempre e ovunque? Evidentemente no. Ma direi che in Europa, paesi come Francia, Italia, Spagna e Germania testimoniano che la scuola cattolica rappresenta una ricchezza straordinaria, una chance in termini di sapere e promozione umana, per la crescita delle rispettive società pluraliste e liberali.

Alla sua Congregazione compete la vigilanza sulle grandi istituzioni educative, culturali e teologiche della Chiesa cattolica. Seminari, istituti superiori, università. I seminari sono in crisi di vocazioni. Gli istituti superiori sono minacciati da una teologia di impronta secolare. Le università cattoliche sono culturalmente vivaci ma poco incidenti nello spazio pubblico. È una visione troppo semplicistica la nostra?

No, è solo troppo pessimistica. Vede, in diversi paesi noi registriamo l’affacciarsi di una nuova generazione. Che è minoritaria ma di eccellente qualità e piena di promesse. È parte di quella “minoranza creativa” di cui parla il Santo Padre. Anche il tipo umano e la classe di provenienza sociale sono cambiati. Se una volta le scuole religiose e i seminari erano pieni di ragazzi in gran parte provenienti dalla campagna e dalle famiglie numerose, oggi provengono dalle città e dalle università. Si tratta di giovani e non più giovani che hanno il coraggio di dirsi cristiani e cattolici. Senza contare i tanti non cristiani che ci commuovono per la lucidità, l’umiltà, la generosità e il coraggio che mettono al servizio della libertas ecclesiae. La libertà di esprimere quelle verità sull’uomo di cui la Chiesa è testimone e custode. È vero che resta da vedere se questa nuova generazione sarà sufficientemente numerosa per rifornire i quadri dell’odierna scuola cattolica. E resta purtroppo altrettanto vero che in Occidente, specie in Europa, la diminuzione delle vocazioni c’è ed è drammatica. Ciò detto, i seminari di Parigi o di Madrid sono pieni. E dall’America Latina all’Asia è un fiorire continuo di nuove vocazioni. Si immagini che in Corea del Sud in certi seminari hanno dovuto istituire il numero chiuso. Bisogna anche dire che in taluni casi, per esempio in Polonia, la crisi di vocazioni è crisi di adattamento ai cambiamenti di una società che si è repentinamente secolarizzata. C’è poi un’altra osservazione da fare. Una volta Azione cattolica e movimenti davano molte vocazioni. Adesso non è più così.

Lei sa bene quanto sia zuccherina, almeno sui media, l’annosa polemica tra Chiesa e i militanti politici della cosiddetta agenda gay. La sua Congregazione è stata al centro del ciclone nel 2005 per un documento che affermava che la Chiesa «non può ammettere al seminario e agli ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay». È ancora valido quel pronunciamento o la Chiesa avrà aggiornamenti in materia?

Non mi faccia tornare su polemiche pretestuose. La Chiesa ha esaminato la questione e, sulla base della tradizione, della dottrina e del buon senso, ha tratto le debite conclusioni. E non da oggi, da sempre. La cosa più interessante non sono le polemiche, prevedibili, tra Chiesa e le frange più secolarizzate della società, ma l’operazione di Benedetto XVI. Che è impegnato con la modernità più di quanto la modernità sia impegnata con se stessa. Sembra un paradosso, ma è così. La modernità si è costruita sulla potenza della ragione umana. Oggi la ragione umana si trova criticata, sospettata, negata. Straordinario è che un Papa si erga a baluardo della ragione, che difenda la modernità da se stessa. E infatti, da Ratisbona in avanti, che altro va dicendo il Papa se non: “Ragione, credi in te stessa”? Così la Chiesa è diventata il miglior avvocato della modernità.

Più in generale, oggi sembra un’impresa disperata proporre un’educazione (specie dei giovani) che sia comprensiva di tutte le dimensioni della persona. Non crede?

Non è solo un problema di educazione. È il fenomeno della specializzazione. Prenda la medicina, è così parcellizzata che ormai si fa fatica a trovare uno schema corporeo globale. Non c’è più visione globale, coerente, armoniosa della realtà umana. Tanto nella medicina quanto nell’economia. E la recessione mondiale, causata anche da un eccesso di finanziarizzazione, mi pare sia lì a testimoniarlo. Siamo in un’epoca che esalta la potenza della tecnica nei confronti della realtà. Ma la tecnica non è una visione della realtà. Dovrebbe essere uno strumento, non un fine. Succede lo stesso nella teologia. Tu puoi diventare lo specialista mondiale della storia della Chiesa di Milano tra il 1435 e il 1438. Ma questi sono frammenti di una storia, non è una storia della Chiesa tout court. Più in generale, è auspicabile la ripresa di una visione integrata e integrale dell’uomo, dove materia e spirito, biologia e affettività, corpo e anima, siano riconosciuti nelle loro relazioni e unità. Sappiamo che è un approccio possibile. Quindi non ci scoraggiamo.

Immaginiamo che il suo Ufficio svolga anche un lavoro di raccolta e analisi dei dati sullo stato dell’educazione cattolica a livello internazionale. Emerge qualche fenomeno particolare rispetto al passato?

Sì, la questione della ricerca o del disagio “identitari”, il problema dell’identità in un contesto di libertà e alterità emerge un po’ ovunque. Sotto questo profilo la situazione della scuola cattolica è molto variegata nel mondo, ma diciamo che in generale i modelli sono due: la scuola cattolica che non riceve finanziamenti dallo Stato e quella che invece è finanziata dallo Stato. Il vantaggio del primo modello è che le scuole sono completamente libere. L’inconveniente è, diciamo così, una sorta di “classismo”: non c’è libertà di accesso per le persone meno abbienti, anche se poi intervengono le singole iniziative di solidarietà (borse di studio eccetera) presenti quasi ovunque. Invece le scuole che ricevono fondi pubblici hanno meno libertà di educazione e, anzi, registrano una pressione crescente da parte dello Stato nella scelta dei professori e dei contenuti. Ma l’accesso è garantito a tutti, abbienti e non. Certo, da quando sono in Italia, sono ammirato dalla libertà educativa che sembra garantire quel terzo modello di istruzione che vige in Lombardia, dove mi dicono che l’intervento dello Stato, in questo caso la Regione, sembra tendere a garantire entrambe le cose: sia la libertà delle scuole, sia la libertà di scelta dei genitori, in quanto ogni studente è finanziato dall’ente pubblico attraverso una “dote scuola” che egli può spendere liberamente nella scuola che ritenga più corrispondente alle proprie esigenze, aspettative e valori.

Si parla di un’emergenza educativa a livello planetario. In Occidente preoccupano fenomeni di alienazione quali la diffusione delle droghe e della violenza tra i giovani. In Oriente i giovani sembrano invece spinti verso forme di omologazione diverse: è il caso del crescente fondamentalismo che si registra nel mondo islamico. Come valuta queste tendenze?

Vede, davanti a questi fenomeni che non sta a me valutare, mi colpisce il riscontro che ha nello spazio pubblico la religione. Da una parte ci si rende conto che è impossibile espungere il fatto religioso dalla società e relegarlo in uno spazio esclusivamente privato. Su questo mi pare che figure come il presidente francese Nicolas Sarkozy, l’ex premier inglese Tony Blair e il filosofo postsecolarista tedesco Jürgen Habermas stiano dando testimonianze eccellenti, direbbe Benedetto XVI, di “laicità positiva”. Dall’altra parte sconcerta il fatto che la religione sia spesso associata a violenza, divisione e oscurantismo. È un fatto che, secondo i sondaggi, è in crescita la credenza che la religione sia un fattore di violenza, involuzione, regresso. Ed è un fatto, purtroppo, che conseguentemente a questo procurato allarme sociale, vi siano casi come il Quebec (parliamo di Canada, uno dei paesi democratici più avanzati dell’Occidente, non una dittatura), dove si sviluppano programmi educativi in cui, anche nelle scuole cattoliche, da una parte è fatto divieto di illustrare la specificità del cattolicesimo, dall’altra si impone lo studio di una vaga religione ecumenica. Ho fatto l’esempio del Quebec, ma in Spagna succede la stessa cosa e il modello spagnolo influenza tutta l’America Latina.

E lei in alternativa a questi modelli ideologici cosa proporrebbe?

La mia proposta è che le scuole cattoliche introducano un insegnamento obbligatorio di “cultura cristiana”. Non un’ora confessionale, di professione di fede, ma una vera e propria materia di studio dei contenuti del cristianesimo. Cosa si può obiettare a questa proposta? Che non tiene conto delle altre religioni? Bè, nessuno è obbligato a iscriversi in una scuola cattolica. Credo che sia minimo buon senso riconoscere il nostro diritto ad avere un’ora in cui non facciamo il catechismo cattolico ai ragazzi, ma spieghiamo loro le ispirazioni ideali, i contenuti storici e la specificità religiosa della proposta scolastica a cui hanno liberamente scelto di aderire.

Ma in Occidente la stessa parola “educazione” è ridotta alla dimensione della sola istruzione (quando c’è). Non si comunicano più “significati” o “verità”, ma “abilità”, “conoscenze” utili all’inserimento nel mondo del lavoro. Tant’è che la scuola è diventata un’agenzia di istruzione (quando c’è) e, soprattutto, un’agenzia di socializzazione e comunicazione del “pensiero unico”.

È vero, all’inizio del ventesimo secolo la scuola aveva ancora l’ambizione di educare, cioè di formare la persona umana. I maestri facevano i maestri perché avevano una “vocazione”, così si diceva allora, e la comunicazione di significati non era ritenuta “offensiva” dei diritti della cosiddetta scientificità. Oggi, ne dobbiamo prendere atto, conosciamo una crisi dell’insegnamento che si manifesta sia come deprezzamento del mestiere del maestro, sia come riduzione dell’ambito educativo a luogo di apprendimento della pura tecnica. Se aggiungiamo a tutto questo il fatto che la famiglia non è più in grado di sostenere da sola l’educazione dei figli, si capisce perché la Chiesa, “esperta di umanità”, come disse Paolo VI, fin dal primo secolo dopo Cristo non ha mai smesso di impegnarsi nell’educazione. Perciò sarebbe tragico, oltre che insensato, se la società non volesse più approfittare dell’esperienza e della maestria millenaria che la Chiesa ha maturato nel campo dell’educazione delle giovani generazioni che entrano nel mondo. Ipotesi che vorrei escludere dall’orizzonte, anche perché nella maggior parte dei paesi del mondo vedo che le scuole cattoliche godono di una eccellente reputazione.

E infatti, stando a una classifica stilata dal laicissimo Express, nella “sua” Francia ben dieci delle quindici scuole di eccellenza del paese sono cattoliche. Peraltro – e questo lo deduco da un’inchiesta dell’Herald Tribune – le famiglie musulmane fanno a gara a iscrivere i propri figli alle scuole cattoliche.

Guardi, quando ero ad Angers, passavo molte delle mie giornate da vescovo a visitare le scuole cattoliche come il generale visita le truppe al fronte. Sì, noi siamo fieri delle nostre scuole. Anche perché, come dico sempre ai miei confratelli, in una società sempre più secolarizzata, dov’è che un bambino, un ragazzino, un immigrato potrà incontrare e conoscere il cristianesimo? La scuola cattolica diventerà il primo e, forse, unico luogo di contatto con il cristianesimo. Perciò, ai responsabili della Chiesa raccomando: guardate che la scuola è il punto cruciale per la nostra missione. E agli insegnanti dico: coraggio, a voi che siete in prima linea va tutta la nostra fiducia e gratitudine.

© Copyright Tempi, 14 gennaio 2009

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