lunedì 16 febbraio 2009

Il Papa all'Angelus: accogliere e guarire. La conferma del viaggio in Israele (Zavattaro)


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BENEDETTO XVI - Accogliere e guarire

Dopo l’Angelus la conferma del viaggio in Israele

Fabio Zavattaro

Non solo Angelus in questa domenica di metà febbraio per Benedetto XVI, ma anche la conferma di un viaggio tanto desiderato, la visita in Terra Santa, terzo Papa a camminare sui luoghi di Gesù dopo Paolo VI, la storica visita del 1964, e Giovanni Paolo II, nel 2000.
L’Angelus ci porta con il racconto di Marco ad una singolare guarigione miracolosa. “Sii purificato”. Sono le parole con le quali Gesù si rivolge al lebbroso sanato che supplicava in ginocchio di essere purificato. Ciò che ci interessa sottolineare, in questo momento, non è tanto il dopo, e cioè l’invito a tacere sulla guarigione e a presentarsi ai sacerdoti per offrire il sacrificio prescritto dalla legge mosaica: sappiamo che il lebbroso non riuscì a tacere e a tutti raccontò quanto aveva ricevuto in dono. Quanto invece il parallelismo che Benedetto XVI offre alla riflessione dei fedeli che sono convenuti in piazza San Pietro per ascoltare l’Angelus domenicale: la lebbra come il peccato.
La lebbra, secondo l’antica legge ebraica – come si legge nel Levitico – era considerata non solo malattia ma la più grave forma di impurità. Spettava ai sacerdoti esaminare l’uomo e dichiararlo impuro nel caso fosse affetto dalla malattia e ne portasse sul corpo i segni. Sempre il sacerdote poteva diagnosticare la guarigione e riammettere il lebbroso nella comunità. La lebbra, dunque, come “una sorte di morte religiosa e civile, e la sua guarigione una specie di risurrezione”.
Nella lebbra, dice papa Benedetto, si può intravvedere un simbolo del peccato “che è la vera impurità del cuore, capace di allontanarci da Dio. Non è in effetti la malattia fisica della lebbra, come prevedevano le vecchie norme, a separarci da lui, ma la colpa, il male spirituale e morale”.
Non nascondere la colpa ma confessare le proprie iniquità. È questa la strada per “guarire”, afferma il Papa, perché “i peccati che commettiamo ci allontanano da Dio, e, se non vengono confessati umilmente confidando nella misericordia divina, giungono sino a produrre la morte dell’anima”. Il peccato, dunque, che intacca non solo il corpo ma anche l’anima e il sacerdote come ministro che accoglie e guarisce nella confessione.
Forte valenza simbolica, la guarigione del lebbroso. Con Isaia il Papa ricorda che Gesù “è il servo del Signore che si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. Nella sua passione diventerà come un lebbroso, reso impuro dai nostri peccati, separato da Dio: tutto questo farà per amore, al fine di ottenerci la riconciliazione, il perdono e la salvezza”. È nel sacramento della penitenza che, mediante i suoi ministri, Cristo “ci purifica e ci fa dono del suo amore, della sua gioia e della sua pace”. Di qui l’invito che papa Benedetto rivolge a tutti a evitare il peccato con l’aiuto di Maria e a fare ricorso alla confessione, “il sacramento del perdono che oggi va riscoperto ancor più nel suo valore e nella sua importanza per la nostra vita cristiana”.
Fin qui l’Angelus del Papa.
Ma in questa domenica di metà febbraio un’altra notizia ha attirato l’attenzione dei media: l’annuncio del premier Ehud Olmert che il Papa sarà in Israele il prossimo mese di maggio. “Una visita importante”, l’ha definita, sarà lo stesso presidente Shimon Peres ad accompagnarlo durante il suo soggiorno. Un viaggio che era nell’aria e che Benedetto XVI stesso aveva dato per certo, parlando ai presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, dicendo: “Sto preparando la visita in Israele, terra sacra per i cristiani e gli ebrei”. Una meta desiderata, ma che si porta dietro tutta una serie di questioni che la rendono, diplomaticamente parlando, complessa. Sarà prima in Giordania dove, per la seconda volta, metterà piede in una moschea, quella dedicata al re Hussein; andrà anche sul fiume Giordano, il luogo del battesimo di Gesù, e sul monte Nebo da dove si vede Gerusalemme, e dove Mosè vide la terra promessa ma non la raggiunse. Infine, nei territori palestinesi, dove incontrerà Abu Mazen.
Più delicata la tappa israeliana. Il Papa arriverà a Tel Aviv l’11 maggio, tre giorni dopo il suo arrivo ad Amman, e andrà subito al museo dell’Olocausto, Yad Vashem, dove si trova la contestata didascalia che sottolinea i silenzi di papa Pio XII sulla Shoah. Il giorno dopo sarà nella spianata del Muro Occidentale, il Muro del pianto; incontrerà il Gran Mufti di Gerusalemme, andrà al Cenacolo e avrà un incontro con i due gran rabbini di Israele. Infine le tappe di Betlemme e Nazareth e il 15 mattina, la visita alla basilica del Santo Sepolcro, prima di far ritorno in Vaticano.
Tappa delicata, dicevamo, proprio per le polemiche che nei giorni scorsi si erano registrate per le affermazioni che negavano la Shoah fatte dal vescovo tradizionalista Williamson, al quale il Papa aveva tolto la scomunica, assieme ad altri tre vescovi, ordinati illecitamente da monsignor Lefebvre. Polemiche che sembravano allontanare l’ipotesi del viaggio, e sulle quali il Papa aveva voluto mettere la parola fine ripetendo, proprio ai presidenti delle organizzazioni ebraiche americane, che la Shoah è un “crimine contro Dio e contro l’umanità” ed è “inaccettabile e intollerabile” la posizione di chi, tra gli uomini di Chiesa, la nega o la minimizza, perché “l’intera umanità prova profonda vergogna per la selvaggia brutalità nei confronti del vostro popolo” messa in atto durante la seconda guerra mondiale. Al termine del discorso il rabbino David Rosen, molto impegnato nel dialogo interreligioso, aveva commentato: “Nessun equilibrato osservatore ebreo potrebbe chiedere niente di più al Papa di quanto ha detto oggi”. E il rabbino Arthur Schneier, lo stesso che accolse Benedetto XVI a New York alla Sinagoga di East Park, rivolgendosi al Papa gli aveva detto: “La terra promessa attende il vostro arrivo”.
Ma al di là delle parole e del dialogo che è stato faticosamente riallacciato, è evidente quanto sia delicato il viaggio del Papa, proprio per le tante aspettative e per la delicatezza della situazione che vede non tutti su posizioni dialoganti come quelle espresse da Schneier o dal presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna che ha definito le parole del Papa “una risposta forte e autorevole, dopo che altre voci provenienti dal mondo cattolico avevano, nelle scorse settimane, fatto nascere il timore che le possibilità di dialogo, di comprensione e di riscoperta delle comuni origini, fossero destinate a un brusco ridimensionamento”.

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1 commento:

Anonimo ha detto...

io cero all'ANgelus e il Papa non ha nenache lontanamente parlato di terrasanta e tanto meno di israele.
i servizi giornalistici specialmente del tg1 sono scandalosi!