martedì 16 dicembre 2008

La vita umana è disponibile? Ne discutono Giuliano Ferrara e Vittorio Possenti (Il Foglio)


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Su segnalazione della nostra Alessia, vera fonte per il blog, leggiamo questi interventi di Possenti e Ferrara, pubblicati da "Il Foglio":

Vita, disporne liberamente

Vittorio Possenti

Vittorio Possenti, filosofo cattolico, esprime il suo libero pensiero

In questo intervento affronto tre problemi: 1) quale fondamento possiede l’assunto che la propria vita è assolutamente indisponibile? 2) nel rapporto tra Persona e Tecnica (medica e biologica) non stiamo entrando in una zona di rischio e confusione? 3) esiste un obbligo assoluto di curare e di curarsi a qualsiasi costo? Basta aver articolato le domande per coglierne l’onnipresenza nei dilemmi biopolitici dell’ora, concernenti la futura legge sulla fine della vita, la portata delle indicazioni anticipate di trattamento, il rapporto medico-paziente, il dettato della nostra Costituzione in merito.

1) Nell’eccitata discussione in corso da anni, e ultimamente infiammatasi, in ordine ad una legge che stabilisca alcuni (pochi) criteri per la fase finale della vita, decisiva è la questione se la propria vita sia entro certi limiti disponibile o viceversa totalmente indisponibile. Quale che sia la risposta, essa deve essere sostenuta da argomenti riconoscibili e sottoposti ad esame. Vale la pena di sottolineare che si tratta della propria vita, non di quella altrui che in linea di principio è e rimane indisponibile: anche questo supremo criterio non è senza eccezioni, potendo lo stato domandare per motivi di difesa e di solidarietà sociale il sacrificio della vita dei cittadini in vista del bene comune, come accade nelle guerre presumibilmente giuste. In Italia vi sono culture che sostengono che la propria vita è sotto certe condizioni disponibile per il soggetto, ed altre che viceversa ritengono che la propria vita sia un bene del tutto indisponibile e che addirittura la nostra Carta costituzionale abbia stabilito una volta per tutte tale indisponibilità.
I sostenitori della prima posizione dicono ‘la vita è mia e la gestisco io’, un’affermazione diversa da quella che dice ‘l’utero è mio e lo gestisco io’, poiché nell’utero ci può essere un altro che non sono io. Al contrario la seconda posizione ritiene che il soggetto non abbia diritto a decidere sulla propria vita: non spetterebbe alla persona stabilire alcunché sulla fine della propria vita, né sussisterebbe un diritto ad essere ascoltato in merito. La prima tesi è in genere diffusa tra la cultura laica e liberale, l’altra sembra oggi prevalente nella cultura cattolica e cerca ultimamente di imporsi come indiscutibile attraverso una martellante ripetitività.
Su questi temi rifiuto il termine ‘testamento biologico’, infelice tanto dal lato del sostantivo poiché la vita non è un bene patrimoniale cui solo si applica il concetto di testamento, quanto dal lato dell’aggettivo in quanto la vita umana eccede l’elemento biologico. La disponibilità/indisponibilità della propria vita non va commisurata con lo status di un bene patrimoniale, ma di quel supremo ‘bene vita’ che rimane misterioso nonostante le invasioni della tecnologia e in cui è legittimo ascoltare la volontà del singolo, poiché non si tratta di un bene esclusivamente biologico ma spirituale e personalistico. Naturalmente in questa determinazione entra in maniera forte il rapporto della persona con la trascendenza: una prospettiva religiosa valorizza di primo acchito il rapporto dialogico con Dio entro cui viene considerata la propria vita. Viceversa una prospettiva religiosamente agnostica non possiede un’alterità trascendente con cui entrare in rapporto: la partita si gioca nella volontà del soggetto all’interno di un rapporto ‘orizzontale’ con se stessi e i simili.
La questione dell’autodeterminazione va impostata in modo coerente con l’idea di persona e l’antropologia del personalismo. Noi non siamo né il nostro genoma (tesi biologistica e materialistica) e neppure siamo solo la nostra libertà (tesi libertaria): siamo esseri dotati di anima intellettuale che include in sé quella sensitiva e vegetativa, e l’anima è più che la libertà.
La vita umana e la persona umana hanno valore non soltanto in quanto vita di un essere libero (di modo che sospesa la sua libertà la persona non sarebbe più tale), né in quanto vita biologica, ma appunto in quanto vita di un essere dotato di anima spirituale che è compos sui. In tal senso spetta alla persona decidere, e non perché – ripeto – l’affermazione dell’autodeterminazione dia fiato ad un’antropologia libertaria (o la sua negazione ad un’antropologia biologistica). Lo specifico personale sta nel sinolo individuale e irripetibile tra anima e corpo, per cui la persona è anima incorporata o corpo vivificato dall’anima.
Posizioni teologiche accreditate presentano la vita come un dono di Dio che a lui appartiene, di cui il soggetto non ha alcuna disponibilità. Deve allora trattarsi di un dono sui generis poiché ogni dono appartiene al donatario e non più al donante, per cui meglio sarebbe parlare della vita come bene dato in impiego responsabile al soggetto. Di fatto poi le considerazioni religiose a favore dell’assoluta indisponibilità della propria vita si muovono su un terreno etico-giuridico. Numerosi giuristi (cattolici) osservano che autodeterminarsi ha un valore, poiché la persona è dotata di libero arbitrio e padrona dei suoi propri atti, e che esiste un diritto costituzionale all’autodeterminazione – ad es. quello al rifiuto/rinuncia di trattamenti sanitari – ma che tale diritto ha dei limiti che conviene fissare. Naturalmente tutto si gioca sul modo con cui vengono fissati tali limiti. Non si può che concordare quando si chiede che nell’autodeterminarsi il soggetto non rechi danno agli altri, e quando si sostiene che ogni vita umana è sempre dotata di dignità. Per esemplificare, tale dignità è pari in Eluana in condizione di grave disabilità ed in me passabilmente sano: conseguentemente occorre prendersi cura di chi è fragile, non abbandonarlo. Ma il riconoscere la dignità della vita ferita da salvaguardare non contraddice la liceità di autodeterminarsi in vicende di fine vita e di cure salvavita, che appunto possono essere accolte o rifiutate. Ancor meno rilevante è l’argomento secondo cui l’autodeterminazione, nel caso in cui decida a favore del rifiuto/rinuncia a trattamenti salvavita, opera per indebolire socialmente il diritto alla cura. Questo atteggiamento non lede il diritto del malato che intenda essere curato sino all’estremo limite del possibile e ricorrendo a tutte le risorse del sistema sanitario e della tecnologia medica. In realtà il dovere di cura dello stato rimane intatto e parimenti il diritto del malato di non essere lasciato solo e di venire consolato.
Ripetere che la propria vita è totalmente indisponibile non fa avanzare il problema ma blocca una saggia ricerca di soluzione. Il blocco dipende dal fatto che sul piano razionale il criterio di un’assoluta indisponibilità della propria vita non è fondato. Diverso appare il discorso della fede che non possiamo dare per valido in modo cogente per tutti. Notevole per la sua implausibilità appare poi l’assunto che l’indisponibilità della propria vita sarebbe un chiaro dettato della nostra Carta. E’ lecito nutrire molti dubbi sull’assunto. Forse si può ricordare per affinità che la nostra Carta lascia il suicidio in un’area non rilevante costituzionalmente. Pertinente è invece il dettato dell’art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In tal senso la legge non potrà rendere legale l’eutanasia, che contraddice la dignità della persona, ma potrà rispettare chiare indicazioni di trattamento.
Rimane comunque aperto l’interrogativo sull’accertamento della reale volontà del paziente. Problema difficile che sposta la questione da una controversia sul criterio della disponibilità/indisponibilità della vita alla questione di come effettivamente verificare quale reale volontà di cura o non cura sia stata emessa dal soggetto. La difficoltà è multipla: non solo quella di accertare che cosa ha veramente chiesto in modo documentato e obiettivo il soggetto in passato, ma quale sarebbe attualmente la sua volontà se potesse esprimersi ora, e quale valore si dovrebbe dare alla volontà espressa nella situazione presente, dato che la volontà in situazione può essere alterata da paura, angoscia, sofferenza, ritorno del desiderio di vivere.

2) Il secondo interrogativo riguarda il delicatissimo rapporto tra Persona e Tecnica. Reputo necessario integrare l’art. 3 della Dichiarazione universale sul diritto alla vita con l’aggiunta: “dal concepimento alla morte naturale”. Poi mi interrogo: che cosa significa oggi morte naturale? Non sta la Tecnica mutando la morte naturale in morte artificiale? Un tema urgente da pensare e poco approfondito anche da parte di vedette di vario genere. Ci troviamo spiazzati perché esiste una sottovalutazione della sfida posta dalla Tecnica alla Persona. La Tecnica rischia di diventare la nostra signora e padrona, quella che ci detta che cosa dobbiamo pensare e operare, quello che dobbiamo osare, quello che è obbligatorio fare o non fare; insomma la Tecnica come la nostra guida più vera e sicura, quella che ci offrirà salute, immortalità corporea e saggezza. Essa ci offrirà la Vera Vita quaggiù, al posto dell’aldilà celeste sperato e atteso. Sotto la sua guida nulla ci è risparmiato, neppure l’idea che occorra dilazionare senza fine il morire in attesa che la scienza inventi nuove tecniche di rivitalizzazione. Sembra che il vivere indefinitamente quaggiù sia diventato il bene supremo.
Una fiducia così larga è mal riposta, perché la tecnica è aperta sui contrari, può essere usata per il bene e per il male (lo insegnava già Aristotele). Non è di per sé né solo benefica né solo malefica. Essa cura ed essa uccide; mantiene la vita e la toglie. Sulla questione della tecnica l’attuale posizione della chiesa, o forse meglio di uomini di chiesa, non è esente da distonie. Si nutre una più che giustificata perplessità sulla tecnologizzazione delle fasi dell’inizio della vita, esprimendosi con ottimi motivi contro la manipolazione dell’embrione, la sua clonazione per qualsiasi scopo, il prelievo di cellule staminali embrionali, ma poi ci si affida troppo alla tecnica e alla macchina nelle fasi terminali, interferendo profondamente col processo naturale del morire. La macchina non può sostituirsi al Creatore né nella fase iniziale né in quella terminale della vita. Che senso ha una Peg inflitta ad un malato terminale in agonia per nutrirlo a forza? Negli hospice ai malati terminali di cancro nutrizione e idratazione possono essere sospese onde evitare un inutile prolungamento di un’agonia dall’esito comunque segnato.
Per rappresentarci la situazione dobbiamo tener presente che non pochi casi di coma vegetativo persistente sono l’effetto – inintenzionale ma realissimo – delle metodologie sempre più perfezionate e accanite di rianimazione e di terapie intensive, che non riescono a guarire ma solo a mantenere in vita. Questo elemento è ignorato da posizioni tese a riaffermare con toni vibranti l’assoluta indisponibilità della propria vita. In tal modo ci si pone in uno spazio di falsa sicurezza, che solleva dalla fatica di considerare le inedite possibilità di vita e di morte cui le nuove tecniche ci conducono. Neppure si considera che l’equipe medica che tenta il tutto per tutto per trattenere a qualunque costo, può operare un atto di maleficenza invece che di beneficenza verso il malato.

3) Anche il terzo punto è connesso al problema Tecnica. Non sussiste alcun dovere/obbligo assoluto di curare e di curarsi a qualsiasi costo, in particolare quando l’invasività crescente delle tecnologie mediche nella sfera corporea della persona travalica ogni forma di rispetto dovutole, e si fonde con una concezione accanitamente tecnologizzata della vita e della morte che viola i limiti imposti dalla dignità della persona umana. La disattenzione in merito proviene dal timore che ogni minima apertura sul rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari aprirebbe la strada a prassi eutanasiche, indubbiamente da scongiurare. La depenalizzazione dell’eutanasia costituirebbe una tragedia non inferiore alla depenalizzazione e legalizzazione dell’aborto. Tuttavia chiarezza vuole che “diritto di morire” e “diritto al rifiuto/rinuncia a trattamenti sanitari” siano cose diversissime. Il “diritto di morire” è un falso diritto o un diritto che non sussiste, non perché sia contraddittorio ma in quanto è qualcosa che non è dovuto alla persona. Anche per questo non fa parte dell’elenco comunemente riconosciuto dei diritti umani. Ogni autentico diritto dà voce a quanto è dovuto al soggetto umano, esprime il suum che gli altri sono tenuti a riconoscergli. Alla base di ogni diritto non vi è la mera vita biologica, ma la natura umana e la persona umana. Se non esiste un diritto di morire, è ragionevole invece riconoscere al soggetto una sfera di autonomia nel modo di affrontare la morte in maniera naturale e non come un combattimento all’ultimo sangue. Se la morte è il massimo limite umano che va riconosciuto, l’interruzione del trattamento non vale come rifiuto della vita ma come accettazione del limite naturale ad essa inerente. Non si rinuncia alla vita, non si rifiuta la vita, ma si accetta di non potere impedire la morte o di non doverla ulteriormente procrastinare.
Naturalmente occorre prendere le distanze dall’abbandono terapeutico con tutte le sue tristi occorrenze, che tuttavia forse sono meno frequenti dei casi di accanimento terapeutico, cui spinge la medicina tecnologizzata. Più negativo dell’abbandono terapeutico è l’abbandono dell’accompagnamento, ossia la presenza di troppe macchine e di poche persone nell’itinerario di cura del malato che può sentirsi terribilmente solo.
Concludo. Non sussiste un diritto di morire, ma un diritto di rifiutare cure e terapie invasive, avvertite come particolarmente onerose, degradanti, anche se dall’esercizio di tale diritto scaturisse la morte. E’ sempre stato difficile, e particolarmente oggi, stabilire quando c’è o non c’è accanimento terapeutico, che purtroppo è come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, che cosa sia nessun lo sa. Da tale obiettiva difficoltà dovrebbero trarsi ulteriori argomenti a favore dell’espressione della volontà del paziente. E’ lui che deve dire quando la misura è colma.
Dall’insieme di queste considerazioni si ricava che il Parlamento ha dinanzi un compito immane e onorabile con estrema difficoltà nel preparare una legge sulla fine della vita. Una legge che non potrà che essere molto succinta e lasciare adeguato spazio all’interpretazione saggia e alla casistica concreta, affidata in ultima analisi al rapporto medico-paziente ed alle indicazioni anticipate di trattamento. Dell’estrema delicatezza del problema è segno il fatto che esso si trascina senza soluzione da diverse legislature.

© Copyright Il Foglio, 14 dicembre 2008 consultabile online anche qui.

Giuliano Ferrara risponde a Vittorio Possenti

Questo articolo è una svolta radicale

Giuliano Ferrara

Intellettualmente onesto, il filosofo politico cattolico in questo articolo afferma a sorpresa tre cose. La prima è che, sotto il profilo razionale, diverso e in questo caso opposto a quello della fede, la vita non è un bene indisponibile, a patto naturalmente che sia la propria vita e non quella degli altri. La seconda è che la Tecnica, che pretende di offrirci immortalità corporea e saggezza, che si comporta come la nostra guida totale, vince sulla Persona quando appronta per l’essere umano una vita artificiale, compresi quel nutrimento e quell’idratazione che negli hospice vengono sospesi ai malati terminali per evitare un inutile accanimento. La terza è che non esiste il diritto di morire, se inteso come suicidio assistito o eutanasia, ma deve essere riconosciuto il diritto di accettare la morte secondo la propria idea della dignità del vivere e del limite naturale della vita.
Con questo articolo di Vittorio Possenti, voce autorevole ospitata anche dal quotidiano dei vescovi Avvenire, accademico pontificio nel settore delle scienze sociali e membro del comitato nazionale di bioetica, la discussione innescata dai casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro cambia di segno. Fino a ieri si trattava di un conflitto di teoria morale tra agnostici o cattolici “martiniani” da una parte e cattolici o laici “ratzingeriani” dall’altra. Da oggi diventa un conflitto culturale interno all’establishment del sapere cattolico al quale il professor Possenti appartiene. Una prima avvisaglia era arrivata con la decisione dei vescovi italiani di stimolare il legislatore italiano a produrre norme di legge sulla fase finale della vita, nel segno dell’incalzante offensiva in atto per il testamento biologico ma con l’intento di limitare i danni delle sentenze che autorizzano a rendere disponibile la vita di una persona in ragione di una sua decisione attuale o anticipata nel tempo. Ora con questo scritto c’è una base di libero pensiero e di argomenti rilevanti, articolati e impostati con serietà, che cambia il quadro della discussione. La continueremo nei prossimi giorni con commenti alle tesi di Possenti, la cui potenziale conseguenza culturale, civile e di diritto sarà ben chiara al lettore: nei casi Welby ed Englaro hanno ragione i sostenitori dell’autodeterminazione e torto coloro che si battono per l’indisponibilità della vita umana.

© Copyright Il Foglio, 14 dicembre 2008 consultabile online anche qui.

Anticipazione dal Foglio del 15 novembre

Avanza una nuova stagione eticamente (molto) insensibile

L'eccezionalismo italiano è probabilmente finito, e bisogna prenderne atto. Per una stagione, quando il governo ruiniano dei vescovi italiani toccò il suo culmine e Joseph Ratzinger fu eletto successore di Giovanni Paolo II, era sembrato che l'Italia potesse introdurre in occidente una novità dirompente: la possibilità di sconfiggere l'ideologia moderna, che relativizza la vita umana, e di far prevalere una diversa nozione di umanità con il sostegno della ragione alleata con la fede. L'onda di piena del secolarismo più dogmatico trovò un argine che nessuno si sarebbe aspettato quando, in risposta alla volontà di abrogare una legge equilibrata e ragionevole sulla fecondazione artificiale, una larghissima maggioranza di cittadini disobbedì per la prima volta ai guru dello scientismo e fece fallire l'assalto referendario alla legge 40.
Di quella stagione, che ebbe nella battaglia contro il matrimonio omosessuale e nella promozione di massa del significato sociale della famiglia un complemento di grande impatto civile, ormai rimane il ricordo, e poco più. I vescovi si acconciano all'idea che si debba legiferare per anticipare la propria volontà di vivere o morire, date certe condizioni cliniche. Non basta la libertà di cura, e di rifiuto della cura. Non bastano le norme deontologiche e le provvidenze legali contrarie a ogni forma di accanimento terapeutico. Non basta il rapporto tra il paziente e il medico. Ci vuole la norma, dunque una scelta di diritto e di etica pubblica in favore di un rapporto di dipendenza della vita dalla volontà umana (oggi è in ballo la propria vita, ma già la decisione in attuazione delle dichiarazioni anticipate la prende un altro, e domani chissà). Sul fatto che ogni vita ha eguale dignità, cuore di quel liberalismo cristiano di cui ha diffusamente e dottamente parlato ieri su queste colonne Marcello Pera, prevale dunque l'idea che il giudizio sulla dignità della vita è relativo, è un'opinione del soggetto. Sullo statuto personale dell'embrione, come definito dalla recente Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, sono state notate alcune timidezze.
Nel frattempo, una maggioranza "valoriale" di centro destra, che onestamente fu definita eticamente anarchica dal suo capo, è destinata ad assistere senza poter reagire alla distruzione dei principi informativi della legge 40 sulla fecondazione assistita, visto che le linee guida del ministro Livia Turco nessuno sembra in grado di rivederle o abrogarle sostituendole con altre, anche per paura delle sentenze giudiziarie (che sono anche la molla della decisione della Cei di procedere con una specie di testamento biologico). La Ru486 si sta diffondendo sperimentalemente, così dicono, e sarà presto, questa maligna favola dell'aborto facile, una pratica assimilata da ogni protocollo medico e ginecologico, nonostante la sua più diabolica caratteristica: sancire definitivamente e per sempre la natura solitaria e moralmente indifferente dell'aborto.
Il fatto è che gli argomenti in favore della disponibilità relativa della vita umana non sono irrilevanti. La ragione umana nuda può opporsi, ma con una certa fragilità di fronte all'efficacia della logica utilitaristica e libertaria. La fede e la cultura religiosa, nutrite della loro capacità di estrarre significati dalla sofferenza, sarebbero più forti, ma sono messe fuori gioco dall'argomento della laicità (soffri tu, che sei credente, e lascia me naufragare nel mio dolce annullamento).
Con probità intellettuale, giusto ieri nel Foglio, un articolo del professor Vittorio Possenti si diceva favorevole ad affermare in alcuni casi, secondo la volontà del soggetto, la disponibilità della propria vita. Possenti non è una generica personalità del mondo cattolico, è un autorevole esponente del suo establishment che si prende la responsabilità di includere anche la nutrizione e l'idratazione, ciò che a me sembra in quella logica inevitabile, tra le risorse vitali alle quali si ha diritto di rinunciare volontariamente nell'anticipazione delle proprie direttive sulla fine della vita. E in tutto il suo ragionare c'è del giusto, c'è equilibrio, tranne che su un punto, a mio giudizio cruciale. La questione della norma.
Un conto è accettare stoicamente e cristianamente, laicamente e religiosamente, razionalmente e fideisticamente, il limite naturale della propria vita. Un conto è discuterlo con i propri familiari, con un amico in corsia, con il prete o con il proprio medico, figura decisiva. Un conto è la deontologia medica, che può consentire di dichiarare, su sua responsabilità morale, la fine di un accanimento. Un altro conto è una legge, una norma eticamente valida per tutti, che decide quali sono le condizioni entro le quali una vita umana può essere dichiarata non degna di essere vissuta. Il salto culturale, civile, ideologico è radicale. E' il passaggio da un morire cristianamente a un morire dopo il cristianesimo.

© Copyright Il Foglio, 15 dicembre 2008

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