sabato 20 giugno 2009

A colloquio con l'arcivescovo D'Ambrosio alla vigilia dell'arrivo del Pontefice a San Giovanni Rotondo (Osservatore Romano)


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A colloquio con l'arcivescovo D'Ambrosio alla vigilia dell'arrivo del Pontefice a San Giovanni Rotondo

Dall'accoglienza alla comunione

di Mario Ponzi

San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali. Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell'antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente. Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e "tutto è pronto per mostrare al Papa l'anima vera del Gargano" confida a "L'Osservatore Romano" monsignor Domenico Umberto D'Ambrosio, in procinto di fare - subito dopo la visita del Papa - il suo ingresso nell'arcidiocesi di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile. Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.

Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima: la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano. Come state vivendo questa vigilia?

Effettivamente è un momento particolare. Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni. Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l'anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce. Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI. Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui. Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo: è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi. Un evento di grazia che si rinnova, dunque. La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli. Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.

E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate?

Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell'intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità. Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c'è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso. Ecco io mi auguro che quest'esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.

Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti?

Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa. È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare. La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle. A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all'altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo. Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.

Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come "Città della pace e dell'accoglienza".

Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene. Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze. In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima. Ma non è questo il problema che mi preoccupa. La domanda che ci poniamo infatti è un'altra: cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell'incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.

Certamente si sarà fatto un'idea di cosa fare per risanare questa frattura.

Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell'accoglienza. Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell'accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c'è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede. Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa. Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto "giovani, famiglia e missione", affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte. Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione. Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via. Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.

Allargando un po' lo sguardo all'intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest'area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica?

La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato. La situazione sociale presenta diverse sfaccettature. Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde. La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi. È una condanna che ci portiamo dietro da sempre. E se non fosse per quei bagliori riflessi dell'industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un'equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l'ondata emigratoria. Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni. Per loro non c'è spazio in casa, non ci sono opportunità. Dunque bisogna emigrare. Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti. Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un'etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria. Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa. Noi come Chiesa, con l'aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è. Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie. Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti sembrano essere invece le uniche risposte alla crisi. E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo. Questo crea grande sofferenza. Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.

Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più?

In questo periodo stiamo dedicando un'attenzione particolare alla famiglia. Assistiamo ad un'impennata dei divorzi. È un problema che ci assilla. C'è un allentamento dei costumi che porta all'abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione. I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio. C'è poi una certa recrudescenza della pratica dell'aborto. Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori. Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi. C'è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull'aiuto di laici esemplari che sappiano offrire modelli da imitare. Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all'incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.

(©L'Osservatore Romano - 21 giugno 2009)

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