giovedì 19 marzo 2009

PAPA/ Un articolo senza titolo (Roberto Fontolan)


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PAPA/ Un articolo senza titolo

Roberto Fontolan

giovedì 19 marzo 2009

Possiamo immaginarci la scena.
Una redazione qualsiasi. Stanze ex fumose (ora è vietato). Giovanotti trafficano ai computer chiacchierando di quant’era bella la professione e quanto non lo sarà più. Facciamoci due passi fino al bar.
Sussurri sulle prossime nomine in Rai che daranno il via alla classica (e sempre attuale) “rumba dei direttori” (un gioco che si svolge a porte chiuse e al quale accedono da sempre gli stessi sette-otto nomi, a proposito di caste).
La tv è accesa, su Sky o Rainews. Giornata media, noia media. Fino a che sui monitor compare un flash d’agenzia, il cui titolo, presumiamo, sarà: “Papa in Africa: no al preservativo”.

Ehi, esclama il caposervizio addetto al controllo delle notizie, abbiamo un titolo, finalmente! Già, i titoli. Con il titolo si fa tutto. Si condanna una persona (stupratore, ladro, corrotto, pedofilo, in questo caso viene meglio se prete). Si esaurisce un mondo. Si distrugge un pensiero.

Generalmente parlando i titoli “funzionano” (si dice proprio così) quando sono negativi e devastanti. Ne sa qualcosa lo stesso Papa, da Ratisbona all’affaire lefebvriani si sarà accorto di quanto costa, di quanto pesa un titolo. Ormai pochissimi leggono gli articoli per intero o ascoltano tutto il telegiornale. Bastano i titoli “per far capire”. L’evento, l’uomo, la storia e la filosofia. In tre o quattro parole, una o due righe, ecco fatto. Non serve altro.
Se il giornalismo fosse un mondo onesto e leale li dovrebbe abolire. O obbligarsi a usare solo una parola. L’altro ieri, sulla notizia che ha svegliato il caposervizio di turno in un giorno medio avrebbe dovuto esserci la parola Africa, o Papa, o anche Aids, o persino Preservativo (piuttosto parziale, ma almeno oggettivo). E così sui giornali e telegiornali di ieri. Niente altro, né occhielli, né sommari. Una parola per segnalare e basta, non una mannaia per decapitare. Che bellezza, che liberazione, essere costretti a leggere tutto, ad ascoltare tutto. O a ignorare tutto. Però tutto.
Certo, si può truffare anche scrivendo diecimila caratteri, ma noi lettori-telespettatori-ascoltatori siamo disposti a rischiare. Vogliamo tutto, dateci tutto. Non più giochi di parole, non più buchi della serratura da dove guardare l’immensità del reale, non più tramezzi di cartone dai quali origliare la faticosa esistenza dei vicini, non più strizzatine d’occhio compiaciute e sadiche, non più letture condizionate pregiudicate guidate.
Parlando in aereo con i vaticanisti, Benedetto XVI ha risposto a cinque domande. Nell’ordine: la “solitudine” del Papa, la crisi economica, la prossima enciclica, il cristianesimo e le sette in Africa, la posizione della Chiesa rispetto all’Aids. Ed ecco cosa ha risposto (lo riprendiamo dal Vatican Information Service, attendibile perché ufficiale e letterale): «Penso che la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l'Aids sia proprio la Chiesa cattolica, con i suoi movimenti. [...] Direi che non si può superare questo problema dell'Aids solo con slogan pubblicitari. Se non c'è l'anima, se gli africani non si aiutano, non si può risolvere il flagello con la distribuzione di profilattici: al contrario, il rischio è di aumentare il problema. La soluzione può trovarsi solo in un duplice impegno: il primo, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l'uno con l'altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto con le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti».
C’è qualcuno che possa dire che il giudizio del Papa non sia vero? Che possa sostenere che si può risolvere il flagello dell’Aids solo con i profilattici? Che non sia necessaria una «umanizzazione della sessualità»? Non desideriamo tutti «un nuovo modo di comportarsi»? E l’amicizia con i sofferenti è forse sbagliata? Anche i più accaniti mangiapreti, se sono uomini, devono essere d’accordo.
Ma poi su queste parole è arrivato il titolo che le ha demolite prima e annichilite poi (come accade ormai per ogni titolo di ogni notizia). Ed è stato il solito teatrino di commenti e notazioni intelligenti, tipo “è la prima volta che il Papa usa la parola profilattico” o “si vorrebbe evitare di cadere nella trappola che quella parola mette sul sentiero di una delle rare occasioni che si hanno in Italia di parlare delle realtà e dei problemi dell’Africa”.
Già, si vorrebbe evitare, ma non si può. La trimurti del giornalismo “moderno”, vouyerismo-cinismo-giustizialismo, lo vieta. In fondo, che ce ne frega dell’Africa?

(PS. Come titolo per questo articolo propongo: “Questo articolo non dovrebbe avere un titolo”. Confido in voi, amici deI Sussidiario)

© Copyright Il Sussidiario, 19 marzo 2009

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