sabato 20 dicembre 2008
Una classico dell'esegesi biblica medievale: Lo studio delle fonti è come la manna inesauribile e sempre gustosa (Osservatore Romano)
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Una classico dell'esegesi biblica medievale
Lo studio delle fonti è come la manna inesauribile e sempre gustosa
di Raffaele Savigni
Università di Bologna
L'esegesi biblica medievale è stata oggetto di un rinnovato interesse negli anni centrali del secolo scorso. Un interesse che si è tradotto in una serie di studi, articolati secondo due diverse linee interpretative: l'una riconducibile a padre Henri De Lubac - che nella sua opera monumentale Exégèse médiévale (1959-1964) ha rivalutato l'esegesi spirituale dei Padri incentrata sulla dottrina dei quattro sensi della Scrittura - l'altra a Beryl Smalley (1905-1984) e a padre Ceslas Spicq, che hanno rivolto l'attenzione soprattutto alla riscoperta dell'esegesi storico-letterale già valorizzata da Girolamo da parte di un gruppo di esegeti dei secoli xii e xiii, nel quadro di una più generale rinascita degli studi e di una più chiara distinzione tra esegesi scientifica e teologia. Lo studio della Bibbia nel medioevo di Beryl Smalley è stata quest'anno pubblicato nella sua terza edizione - a cura di Gian Luca Potestà - dalle edizioni Dehoniane di Bologna.
La prima edizione inglese dell'opera di Smalley, punto di arrivo di una serie di ricerche analitiche sui manoscritti, risale al 1941, e privilegia il xii secolo. Nel 1952 venne pubblicata una seconda edizione, notevolmente ampliata, che proseguiva la trattazione sino agli albori del Trecento, considerato come un punto di svolta, in quanto lo spazio dell'interpretazione spirituale, ormai separato da quello dell'esegesi scientifica - sempre più spesso identificata con l'approccio storico-filologico - sarebbe stato d'ora in poi non più quello dell'esegesi allegorica tradizionale, ma quello della mistica e della devozione. Di tale edizione venne pubblicata nel 1972 la traduzione italiana, corredata da un saggio introduttivo di Claudio Leonardi (L'esegesi biblica medievale come problema storico): quest'ultimo intravvedeva tanto nel de Lubac, quanto nella Smalley, una sostanziale incomprensione per il senso storico-profetico, privilegiato da Gioacchino da Fiore, e suggeriva quindi un diverso approccio all'esegesi medievale, partendo dal presupposto secondo cui "il proprio dell'esegesi è la storia. Profezia significa giudizio sulla storia e annuncio per la storia e nella storia" (prospettiva ripresa nella Premessa al volume La Bibbia nel Medioevo, a cura di Giuseppe Cremascoli e Claudio Leonardi, Bologna 1996, p. 13). La terza edizione inglese, che risale al 1983 (un anno prima della morte dell'autrice), si differenziava per una nuova Prefazione e per l'aggiornamento della bibliografia. Essa viene ora pubblicata in traduzione italiana per iniziativa di Gian Luca Potestà, che nel 2001 aveva già promosso la traduzione di un altro lavoro fondamentale della Smalley, pubblicato in inglese nel 1985 (I Vangeli nelle scuole medievali: secoli xii e xiii, Padova, Edizioni Francescane, 2001).
Come osserva nella premessa Potestà, Lo studio della Bibbia nel Medioevo "è un classico, che sfugge al rapido invecchiamento cui sono generalmente sottoposti i saggi scientifici", e "rappresenta un contributo alla conoscenza della storia intellettuale dell'occidente medievale nel suo complesso", superando i confini di una storia dell'esegesi strettamente intesa: l'autrice osservava infatti che "la storia della cultura biblica dipende da quella dell'organizzazione e della riforma religiose". Certo, si tratta di una sintesi "fortemente sbilanciata", in quanto privilegia nettamente i secoli xii e xiii, considerati come un periodo intellettualmente fecondo e fortemente innovativo rispetto alla tradizione monastica sino a quel momento egemone.
La Smalley ha condotto il suo lavoro sulle biblioteche e sui manoscritti, incentrandolo sull'epoca di formazione della Glossa ordinaria e sugli autori che, utilizzando i nuovi strumenti di lavoro e di analisi forniti dalle scuole (come i correctoria) nel contesto di un dialogo fruttuoso con l'esegesi ebraica (il cui esponente più noto è Rashi di Troyes), seppero ridare nuova vitalità all'interpretazione letterale: in particolare Andrea di San Vittore, che influenzò largamente Pietro Lombardo, Pietro il Cantore, Stefano Langton e altri esegeti successivi. Anche i frati predicatori, in particolare Ugo di Saint Cher, assumono un rilievo centrale nella sua ricostruzione, che si arresta alla fine del xiii secolo, lasciando intravvedere una valutazione meno positiva degli sviluppi successivi.
Potestà osserva inoltre che l'opera della Smalley, incentrata sulla riflessione delle élites cristiane in una fase storica caratterizzata da "contatti cordiali tra studiosi cristiani e studiosi giudei", purtroppo entrati in crisi nei secoli successivi, può essere adeguatamente compresa solo tenendo conto della sua collaborazione con studiosi ebrei (come Louis Rabinowitz) e della sua volontà di contrastare l'antisemitismo diffuso degli anni Trenta: per questo la studiosa "disinnesca qualsiasi elemento potenzialmente antigiudaico nel quadro dell'esegesi cristiana medievale", sottolineando piuttosto la disponibilità di Andrea di San Vittore a recepire l'esegesi ebraica - da lui tendenzialmente identificata con il senso letterale - e quindi a interpretare in chiave non immediatamente cristologica ma in primo luogo storico-politica diversi passi profetici dell'Antico Testamento, tanto da essere accusato di "giudaizzare". Pur rilevando in Andrea la mancanza di interesse per la speculazione teologica e l'assenza di un preciso criterio per distinguere un salmo messianico da uno che si riferisce a Davide o Salomone - solo Guerrico di Saint Quentin e poi Tommaso d'Aquino identificheranno il senso letterale col significato espressamente inteso dall'autore - la Smalley sottolinea il fatto che nel complesso "i cristiani, studiando l'ebraico, nonché il pensiero e le tradizioni giudaiche, fecero un buon affare".
Nelle prime due edizioni dell'opera spiccavano le figure di Anselmo di Laon, di Andrea di San Vittore e di Tommaso d'Aquino, e veniva particolarmente sottolineato il ruolo dei frati mendicanti - che nel tredicesimo secolo avrebbero liberato l'esegesi propriamente intesa dal peso ingombrante di speculazioni teologico-apocalittiche a essa estranee - mentre veniva sbrigativamente liquidata la figura di Gioacchino da Fiore; e il riemergente interesse - nel secondo dopoguerra così come nel Trecento - per il misticismo appariva all'autrice come un esempio "affascinante, sebbene allarmante, del modo in cui la storia dell'esegesi si prolunga in quella dei suoi storici". Nella prefazione alla terza edizione la Smalley tracciava "un bilancio, a distanza, del significato e dei limiti dell'opera", riconoscendo che essa era frutto di un'epoca in cui l'esegesi della Scrittura secondo i quattro sensi "era considerata irrilevante, addirittura bizzarra", e operava una parziale retractatio, riconoscendo, sia pure con qualche riserva - "l'esposizione spirituale in quel tempo ha prodotto un bambino vigoroso, pur non essendo il bambino che mi preoccuperei di adottare" - il ruolo dell'esegesi spirituale, che, come aveva osservato De Lubac, "era essenziale per lo studio e l'insegnamento devoto della Bibbia", in quanto "il senso storico-letterale, come era inteso nel medioevo, era troppo arido e troppo poco edificante per soddisfare i lettori medievali".
I Vittorini, e lo stesso Andrea, le apparivano ora "meno originali e pionieristici" di quanto pensasse in precedenza, ed emergevano più chiaramente le ricadute dell'esegesi sul piano politico ed ecclesiologico, ora illustrate da lavori come quello di Philippe Buc, L'ambiguïté du Livre (Paris 1994). Anche per quanto riguarda gli esegeti carolingi la Smalley tendeva ora a sfumare alcuni giudizi un po' sbrigativi espressi in precedenza - "Studiare i commenti di Alcuino, di Claudio di Torino, di Rabano Mauro e di Walafrido Stradone (...) equivale semplicemente a studiare le loro fonti" (p. 108) - invitando a "considerare i loro metodi e i loro libri alla luce degli obiettivi loro propri, quelli di un ambizioso programma educativo".
Offrendo al pubblico italiano l'ultima edizione del volume della Smalley, il Potestà fornisce altresì al lettore un impegnativo bilancio critico degli studi più recenti e un prezioso strumento per orientarsi in un panorama storiografico sempre più ricco, caratterizzato da una rinnovata attenzione all'esegesi ebraica - non priva di possibili ricadute sul piano teologico per quanto riguarda l'interpretazione del concetto di "ispirazione", non più concepito come una sorta di dettatura del testo sacro da parte dello Spirito - e dal proliferare di studi sul processo di formazione della Glossa ordinaria, su figure di primo piano come Pietro il Cantore, Ugo di Saint Cher, Stefano Langton, Nicolò di Lyra, sulla diffusione della Bibbia tra i laici e sulle volgarizzazioni dei testi biblici. Alla luce delle ricerche sviluppate da Gilbert Dahan e Guy Lobrichon, riconducibili in qualche modo al magistero della Smalley, il quadro appare ora assai più complesso e articolato. Da parte sua Robert Lerner (La festa di Abramo, Roma 2002) ha attirato l'attenzione sull'esistenza di un filone "filogiudaico" di matrice gioachimita, che, per quanto minoritario, scalfisce "la consolidata rappresentazione del cristianesimo medievale come compattamente antigiudaico".
Potremmo concludere con le parole finali di un volume del Dahan (L'exégèse chrétienne de la Bible en Occident médiéval. xii-xive siècle, Parias 1989), che ha ripreso e sviluppato l'ampliamento di prospettiva dell'ultima Smalley, più disponibile a riconoscere la legittimità di un approccio diversificato alla Scrittura: "Mi chiedo in quale misura i commentari medievali non siano, ben più che mere spiegazioni dei testi, una meditazione prolungata sul fatto stesso dell'esegesi (...) Ciascuna glossa, sia pure semplicemente grammaticale, rinnova il mistero di ridire una parola divina (...) L'esegesi non può essere se non un invito ad andare sempre più lontano, a far avanzare la ruota, perché ciascuna generazione, ciascun uomo possa aggiungere il suo sforzo agli sforzi che l'hanno preceduto; ciascuno troverà la manna di suo gusto, sapendo che è inesauribile e sempre gustosa".
(©L'Osservatore Romano - 20 dicembre 2008)
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