venerdì 6 febbraio 2009
Quando Papa Wojtyla esortò il cardinal Ratzinger a ricucire con Lefebvre in nome del Concilio (Bordero)
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Quando Papa Wojtyla esortò il cardinal Ratzinger a ricucire con Lefebvre in nome del Concilio
di Gianteo Bordero
mercoledì 04 febbraio 2009
La questione lefebvriana si intreccia oggi, come sempre si è intrecciata, con la questione della corretta interpretazione del Vaticano II. Lo dimostrano, da ultimo, i fatti accaduti di recente, nei giorni successivi alla remissione della scomunica a carico dei quattro vescovi ordinati da monsignor Lefebvre nel 1988: chi critica la decisione di Benedetto XVI la fa soprattutto in nome di una «fedeltà al Concilio» che sarebbe stata tradita dal pontefice con la sua scelta. In sostanza, il cammino intrapreso dal Papa per giungere ad una piena ricucitura dello scisma lefebvriano sarebbe, a detta di molti, un passo indietro rispetto al percorso compiuto dalla Chiesa e dai predecessori di Ratzinger sul soglio di Pietro, che non hanno esitato a prendere provvedimenti i più gravi per condannare l'arcivescovo francese fondatore della Fraternità San Pio X.
Questa è di certo una lettura arbitraria della storia, specchio di un'altrettanto arbitraria lettura del Vaticano II e di ciò che esso ha rappresentato nel cammino della Chiesa. In particolare, ci si dimentica di sottolineare il filo della continuità che lega, su questo punto, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nonostante le apparenze e le facili approssimazioni, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger sono più vicini di quello che sembra in merito alla questione lefebvriana. Certo: il primo è stato colui che ha scomunicato Lefebvre (anche se, formalmente, il provvedimento a carico del monsignore è scattato in modo «automatico» al momento della consacrazione dei vescovi senza l'autorizzazione papale), mentre il secondo è colui che ha revocato tale scomunica e che si avvia a sanare la ferita dello scisma. Eppure, ci si dimentica di ricordare non soltanto che l'attuale pontefice è stato per più di vent'anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede per volontà del suo predecessore (il quale, anche negli ultimi anni di regno, volle mantenere il cardinale tedesco nel suo incarico nonostante i sopraggiunti limiti d'età per la «pensione» episcopale), ma anche che fu per impulso di Giovanni Paolo II che Ratzinger provò in tutti i modi, e fino all'ultimo, a evitare lo scisma.
A testimonianza di questa sintonia tra il pontefice polacco e l'allora prefetto dell'ex Sant'Uffizio vi è, tra le altre cose, una lettera inviata dal primo al secondo l'8 aprile del 1988, cioè proprio nei mesi precedenti la rottura definitiva tra Roma ed Ecône. In quel momento, gli sforzi del Vaticano per scongiurare il peggio erano molto intensi. La trattativa fu affidata in prima persona al cardinal Ratzinger. Essa porterà, il 5 maggio di quell'anno, alla sottoscrizione di un protocollo d'accordo siglato dallo stesso porporato tedesco e dall'arcivescovo francese: quest'ultimo si impegnava a garantire fedeltà al Papa, accoglieva la dottrina conciliare sulla Chiesa e sul magistero pontificio, riconosceva la validità del Messale riformato da Paolo VI; in cambio, sarebbe stata rimossa la sospensione a divinis del monsignore e la Fraternità San Pio X sarebbe divenuta una Società di vita apostolica, retta da un vescovo nominato dal Papa su indicazione di Lefebvre. L'accordo venne ripudiato il giorno successivo dallo stesso Lefebvre, il quale sostenne di esser stato ingannato. Quel ripudio fu l'inizio della fine.
Ma la citata lettera di Giovanni Paolo II al cardinal Ratzinger rimane molto significativa, perché essa, oltre a rinnovare l'invito al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede a proseguire negli sforzi per ricucire con il monsignore francese, affinché «si compiano anche in questo caso le parole dette dal Signore nella preghiera sacerdotale per l'unità di tutti i suoi discepoli e seguaci», contiene, in nuce, l'interpretazione del Vaticano II che è stata poi esplicitata da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia romana del dicembre 2005. Dopo aver sottolineato il carattere di rinnovamento nella continuità operato dal Concilio, Giovanni Paolo II scrive: «Si sono fatte vive delle tendenze che sulla via della realizzazione del Concilio creano una certa difficoltà. Una di queste tendenze è caratterizzata dal desiderio di cambiamenti che non sempre sono in sintonia con l'insegnamento e con lo spirito del Vaticano II, anche se cercano di fare riferimento al Concilio. Questi cambiamenti vorrebbero esprimere un progresso, e perciò questa tendenza è designata con il nome di "progressismo". Il progresso, in questo caso, è una aspirazione verso il futuro, che rompe con il passato, non tenendo conto della funzione della Tradizione che è fondamentale alla missione della Chiesa, perché essa possa perdurare nella Verità ad essa trasmessa da Cristo Signore e dagli Apostoli, e custodita con diligenza dal Magistero». D'altro lato, vi è pure la tendenza opposta, il «conservatorismo», che «vede il giusto soltanto in ciò che è "antico" ritenendolo sinonimo della Tradizione».
Tutte queste tendenze, concludeva Papa Wojtyla, non colgono il punto focale della questione. Perché «non è l'"antico" in quanto tale, né il "nuovo" per se stesso che corrispondono al concetto giusto della Tradizione nella vita della Chiesa. Tale concetto infatti significa la fedele permanenza della Chiesa nella verità ricevuta da Dio, attraverso le mutevoli vicende della storia. La Chiesa, come quel padrone di casa del Vangelo, estrae con sagacia "dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" rimanendo assolutamente obbediente allo Spirito di verità che Cristo ha dato alla Chiesa come Guida divina». Espressioni, queste, identiche nella sostanza a quelle pronunciate da Benedetto XVI alla Curia romana, con la distinzione tra la corretta ermeneutica del Vaticano II (il Concilio come «riforma») e quella non corrispondente a verità (il Concilio come «discontinuità e rottura»).
Tutto questo per dire che sbagliano coloro che vedono nelle recenti decisioni di Papa Ratzinger una rivoluzione rispetto all'operato dei suoi predecessori, uno sterile ritorno al passato mosso dalla volontà di cancellare i frutti del Vaticano II: in realtà, come emerge dalla lettera qui riportata, egli si muove - seppur con accento e stile diversi - su una linea che tutti i Papi del post-Concilio, a partire dallo stesso Paolo VI, hanno cercato di promuovere nel momento in cui si sono resi conto che la mitizzazione, la semplificazione ideologica, la de-contestualizzazione del Vaticano II non avrebbero portato nulla di buono per la Chiesa e per i cattolici. Se lo scisma lefebvriano, con tutte le difficoltà che ancora ieri sono emerse, sarà sanato, sarà questa linea portata avanti dal papato a vincere, non un passatismo che appare tale soltanto agli occhi di chi, in buona o cattiva fede, aveva interpretato (e tuttora interpreta) il Vaticano II come una grande sbianchettatura di duemila anni di storia.
© Copyright Ragionpolitica, 4 febbraio 2009
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