giovedì 4 dicembre 2008

Marcello Pera spiega perché “deve” dirsi cristiano (Tempi)


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Per Benedetto XVI ha scritto un libro di «fondamentale importanza». Marcello Pera spiega perché “deve” dirsi cristiano

di Emanuele Boffi

«In questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante». Non sono le uniche parole d’elogio che Benedetto XVI ha rivolto tramite lettera all’ultima opera di Marcello Pera, filosofo e senatore Pdl che con l’attuale Pontefice ha una certa consuetudine intellettuale avendo già nel 2004, con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, dato alle stampe Senza radici.
Nella missiva all’ex presidente del Senato, il Papa scrive che «il libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo» e lo ringrazia per aver contribuito a dimostrare che «un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo». Pera intende dimostrare l’affermazione che ha scelto per titolo, superando – con una formulazione meno incerta – il Perché non possiamo non dirci cristiani di crociana memoria. Dopo le critiche alla deriva del liberalismo che, tradendo le intenzioni dei propri padri, ha finito per identificarsi col laicismo, Pera passa all’apostasia cristiana dell’Europa, che ha scelto di rinnegare le proprie radici, perdendo inevitabilmente la propria identità. Identità che il Vecchio Continente ha poi tentato di ricostruire sulle basi friabili del relativismo e del multiculturalismo, trovandosi infine impreparato di fronte alle sfide del nuovo millennio, l’integralismo islamico su tutte.

Nella missiva a lei indirizzata il Papa sottolinea la necessità che il dialogo con gli esponenti delle altre religioni si svolga non su un piano interreligioso, ma interculturale. Lei porta come esempio la lettera dei 138 leader musulmani al Pontefice e il discorso del Papa a Ratisbona. Discorso che lei sintetizza in questa domanda: «Il Dio dell’islam è il Dio della ragione o della spada?». Eppure, lei ricorderà, quell’intervento di Benedetto XVI fu aspramente criticato. Perché il mondo ha paura a rispondere alla domanda? La Chiesa ha lo stesso timore?

Direi che soprattutto l’Europa ha paura di sollevare quella domanda e non mi sfugge che ci sono uomini di Chiesa che ritengono anch’essi che non sia opportuna. Invece lo è, perché se l’islam non è la religione della spada, come sostengono con buone intenzioni i 138 studiosi, allora la fede nell’islam non è di ostacolo alla convivenza e alla pace. Si tratta di una questione preliminare da cui non si può prescindere, magari usando parole logore come “dialogo”. Il dialogo si fa quando si decide di usare la parola, non la forza, quando si cerca di convincere con le buone ragioni, non con l’imposizione. Il Papa a Ratisbona fu chiarissimo, almeno per coloro che vogliono capire o non hanno paura di capire: non disse che l’islam è una religione violenta, storia e scrittura alla mano pose la questione. Fece una domanda, e gli fu risposto con tracotanza. L’Europa dei nostri bravi e coraggiosi capi di Stato e di governo, naturalmente capì la domanda, ma subì la tracotanza. Quasi chiese scusa.

Lei scrive che l’idea illuminista di vivere «come se Dio non esistesse» non dà frutti. Mentre accogliere la sfida di Benedetto XVI a vivere «come se Dio esistesse» darebbe all’uomo contemporaneo una speranza che il nichilismo e il relativismo hanno finito per soffocare. Si spinge anche oltre e dice che noi «dobbiamo» vivere come se Dio esistesse. Che non si debba solo credere “che”, ma credere “in”. Come questo dovere non sconfina nell’imposizione? Come si preserva la libertà personale?

C’è una distinzione importante che non deve essere perduta. Credere “che” è diverso da credere “in”. Credo che il cristianesimo sia la fonte della nostra migliore civiltà, che le virtù cristiane siano le migliori per la vita individuale e collettiva, che l’idea dell’unità di tutto il genere umano perché figlio di Dio ha prodotto le migliori conquiste civili, eccetera. Chi crede “in”, fa un passo oltre: crede in una Persona, ha esperienza di un incontro, avverte una presenza. Costui è il credente in senso stretto, l’uomo di fede. Credere “che” è indispensabile, è uno sforzo che ciascuno deve fare, ma il credere “in” è un atto di grazia, che non dipende da alcuno sforzo intellettuale. Per il credente, Cristo si dà, si manifesta, si incontra, non si prova o argomenta. È necessario però che chi si limita al solo credere “che” non chiuda la porta al credere “in”, non lo consideri un atto irrazionale o impossibile. Il messaggio di Pascal o di Kant consiste proprio nell’apertura al credere “in”.

Lei si applica a dimostrare che i padri del liberalismo non erano nemici della religione. Solo che oggi è ormai certificata la «crisi del liberalismo» che – dopo Mill – si declina solo come laicismo. Pensa che il liberalismo possa ritornare alle intuizioni di Kant, Jefferson, Locke? Perché lo può fare solo “alleandosi” col cristianesimo?

È l’unico modo che ha per sopravvivere come dottrina politica. Deve riconoscersi come una tradizione storica congenere alla tradizione cristiana. In caso contrario, le libertà liberali decadono e decade anche la coesione sociale. Ricordiamoci la domanda di Jefferson: «Si può dire che le libertà di una nazione sono al sicuro se ne viene rimossa l’unica loro base solida, cioè la convinzione che sono un dono di Dio, e che non si possono violare se non provocandone la collera?». I liberali di oggi sono ancora in debito di una risposta convincente diversa da quella di Jefferson.

Nel romanzo Il nome della Rosa Guglielmo da Baskerville dice: «Il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana della verità. (...) Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare». Potrebbero essere queste parole un esempio del relativismo da lei tanto criticato?

Non mi inoltro nel celebre romanzo. Spesso queste frasi lapidarie, fuori dal contesto, servono per scopi diversi o non sono intelligibili. Non sono d’accordo che «le verità che servono sono strumenti da buttare»: come facciamo a buttare la scienza? Se serve, non la si può buttare. Ma forse il senso della frase è che le verità non sono “La Verità”, cioè che c’è qualcosa che è vero oltre le nostre verità positive. E qui torniamo a quanto ho detto prima: occorre essere disponibili ad ammettere che può esistere un vero oltre i nostri veri. Sui singoli veri, si può anche ridere, sapendo che sono caduchi, ma sul vero ulteriore, no, perché, per chi lo riconosce, è eterno. Il relativismo ride delle verità non solo perché le considera contingenti, provvisorie, sempre in divenire, ma perché nega che siano verità. Nietzsche, ad esempio, rideva sprezzante delle nostre verità, perché le considerava illusioni: ma morì pazzo e non si sottrasse alla verità clinica. C’è qualcosa anche di personalmente tragico nei relativisti che ridono delle verità e poi sono costretti a subirle.

Dalla Spagna giunge la notizia che in una scuola di Valladolid saranno rimossi i crocifissi per ordine di un giudice, che ha sentenziato che la presenza di tali simboli «può provocare nei minorenni la sensazione che lo Stato sia più vicino alla confessione correlata ai simboli religiosi presenti nel centro pubblico che ad altre confessioni». Se potesse prendere parola nel tribunale di Valladolid cosa direbbe al giudice?

Da imputato nel processo, direi: «Signor giudice, dove è scritto che siamo tutti uguali e abbiamo tutti la stessa dignità e nessuno può coartare la nostra libertà? Nel codice civile o penale? Sì. Nella Costituzione? Sì. E poi dove altro, prima del codice e della Costituzione? Io l’ho letto nella Bibbia e nel Vangelo. Lei lo sa? Sa che i nostri bei codici e le nostre belle costituzioni neppure esisterebbero se non si accettasse l’idea — che è a loro fondamento e che il cristianesimo ha messo all’onore del mondo — che siamo figli di Dio, uomini che Lui ama al punto di aver sacrificato Suo figlio?». E poi, ormai sul punto di ricevere la sentenza di condanna, direi: «Signori della corte, io sono per lo Stato laico, ma avete riflettuto che lo Stato laico non significa né Stato neutrale né Stato imparziale né Stato privo di valori riguardanti la persona, prima ancora che il cittadino? Avete pensato che, se togliete questi valori — che sono tipicamente religiosi, anche se non volete ammetterlo — distruggete anche lo Stato laico? Come laici vi rispetto, come laicisti invece qual siete vi combatto. Siete solo arroganti e non avete memoria».

E dopo tale perorazione che si aspetta?

Dieci anni senza condizionale, immagino.

Lei scrive che «di questa Unione Europea si dovrebbe fare a meno». Possiamo farlo realmente? O dobbiamo più realisticamente fare i conti con qualcosa che ormai c’è, anche se non ci piace?

Oh, no, l’Unione Europea c’è e non se ne può prescindere. Ma quest’Unione Europea non è certamente l’Europa unita. Per avere l’Unione Europea basta un mercato più o meno omologato, qualche ammennicolo politico e tante regole, per avere l’Europa unita occorre un’identità. Questa, l’Unione Europea di oggi non ce la dà proprio. Anzi, come abbiamo visto con la morta e defunta Costituzione europea, ce la nega.

In una parte del libro si immagina di scrivere delle Lettere americane in cui tale Johnny, uno yankee in giro per l’Europa, descrive il Vecchio Continente all’amata rimasta nel Nuovo. Un modo ironico per dipingere gli stili di vita, le istituzioni e i pregiudizi degli europei. Se oggi il nostro Johnny potesse scrivere un’altra lettera, come commenterebbe le decisioni degli Stati europei rispetto alla crisi economica? E cosa direbbe al suo amore sul fatto che in Europa sono tutti obamiani?

Scriverebbe che hanno reagito con l’unica ricetta che conoscono e piace loro un sacco: il socialismo di Stato. Ma potrebbe accadere di peggio, purtroppo. Potrebbe accadere che gli obamiani e poi gli americani diventino anch’essi europei, che s’inventino anch’essi l’Iri. Obama su quella strada c’è già, per questo da noi piace tanto. «God bless (and save) America!».

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