giovedì 19 febbraio 2009

Card. Ruini: "Laicità, punti fermi per l’etica pubblica"


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Intervento del cardinale Camillo Ruini

Laicità, punti fermi per l’etica pubblica

Camillo Ruini

Con il Vaticano II si è aperta una nuova stagione di rapporti fra cattolici e mondo laico. Ma oggi viviamo una fase nuova, a volte fatta di contese.

Con il Vaticano II è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle. Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno "sensibile" dei rapporti tra Chiesa e Stato: con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno infatti la giustificazione di principio di una "religione di Stato", che aveva costituito l’ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni. Anche la differenza tra regimi "concordatari" e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati, come mostra esemplarmente l’Accordo di revisione del Concordato stipulato tra Stato italiano e Santa Sede nel 1984, si pongono ormai espressamente al di fuori di un’ottica di religione di Stato. Si legge infatti nel Protocollo addizionale di tale Accordo, in relazione all’articolo 1: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».
Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità. A ben vedere, tuttavia, l’oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni. A questo riguardo infatti la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili. Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico. Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica. In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni.
Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire «il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica». Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di «operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi - anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata - un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro».
Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d’altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo. Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile all’universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo.

Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato «la dittatura del relativismo», una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.

Proprio questo taglio radicale è però lontano dall’essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare "il mondo laico": anzi, molti "laici" ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo. L’allora cardinale Ratzinger ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri «dev’essere relativizzata» (Senza radici, pp. 111-112). In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recentissima pubblicazione del libro di quest’ultimo Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo.
Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato «una proposta ai laici»: sostituire la formula di Ugo Grozio etsi Deus non daretur – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, veluti si Deus daretur – come se Dio esistesse –. Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: «Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pp. 60-63).
È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l’apertura cordiale a questo genere di laici: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.
L’analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune. Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall’autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell’Europa moderna a partire dalle guerre di religione. E.-W. Böckenförde, nel suo classico saggio su La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l’indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.
Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell’intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo, oltre che a quel "senso religioso" nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza. Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su Fede e democrazia pubblicato sulla rivista «Aspenia» nel numero 42-2008 (pp. 206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all’origine delle predette interpretazioni della laicità. È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso. In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non "come" vivere, ma "perché" vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.

Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita "sana" e "positiva", che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del "senso religioso" che portiamo dentro di noi.

Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.

© Copyright Avvenire, 19 febbraio 2009 consultabile online anche qui.

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